GIRO D’ITALIA/ Stagi: Weylandt come Alboreto, incontro al destino facendo ciò che desiderava

- int. Pier Augusto Stagi

La morte a ventisei anni è difficile da accettare, e lo è ancora di più per una tragica fatalità. PIER AUGUSTO STAGI commenta a IlSussidiario.net la morte al Giro di Wouter Weylandt

moglie_Wouter_Weylandt_R400 La giovane moglie di Wouter Weylandt

“La morte di un ragazzo di 26 anni è una tragedia per tutti non solo per lo sport. Ventisei anni è un’età in cui umanamente è inaccettabile pensare di dover morire. Si fa fatica a comprendere il senso di una tragedia del genere”. E’ con queste parole che Pier Augusto Stagi, giornalista esperto di ciclismo e collaboratore delle più grandi testate nazionali descrive a IlSussidiario.net la morte del belga Wouter Weylandt, proprio a pochi chilometri dal traguardo di Rapallo, durante la tappa del Giro d’Italia 2011. Le immagini dell’incidente e di quei quaranta minuti di tentativi di strapparlo alla morte hanno fermato l’Italia davanti ai televisori o con l’orecchio incollato alla radio. Aprendo tanti e drammatici interrogativi

Stagi, che domanda pone allora la morte di uno sportivo?

Ci lascia sgomenti e attoniti. Sorge sì una domanda, visto che è una morte accaduta per uno sport, per un divertimento, per un qualcosa che per questo ragazzo era passione pura. Weylandt sognava di diventare un grande campione, era un ragazzo che era passato professionista nel 2005, a soli 19 anni, non aveva vinto moltissimo ma stava cominciando a vincere. Aveva vinto undici gare e una tappa del Giro d’Italia proprio l’anno scorso, e quasi esattamente un anno dopo muore. Questi, come Weylandt, come tanti altri, sono ragazzi che hanno passione, che hanno amore per quel che fanno, nel pieno della loro salute. E’ davvero difficile accettare una morte come questa. Ma è anche vero che diventa accettabile nel momento in cui realizzi che è stata una fatalità: era destino, doveva succedere, non bisogna prendersela con nessuno.

Lei dunque non incolpa la pericolosità di certi percorsi del Giro, come le discese in cui è morto Weylandt?

Ma no. Purtroppo lo sport, certi sport, sono estremi. E’ la stessa cosa con la discesa libera di sci, è la stessa cosa in Formula Uno, è la stessa cosa nell’alpinismo. Si può morire durante una ferrata. Io sono un giornalista di 49 anni, ma quando ne avevo 19 sognavo di diventare un campione di ciclismo. Discese come quella di oggi ne ho fatte e avevo paura. Ma le facevo perché quella era la mia vita. Cito le parole del padre di Michele Alboreto: “E’ morto facendo quello che desiderava fare”.

Il ciclismo è tutt’ora uno degli sport più amati dagli italiani, con una storia fatta di epicità e di sacrificio: è ancora così oggi?

 

Assolutamente sì. Il richiamo primordiale è sempre uguale, quello del misurarsi e di andare oltre, di scalare la montagna. Perché lo sport è comunque una parabola della vita con tutte le sue contraddizioni. Nasci, sei bambino, poi cresci, ti sposi, cerchi un buon lavoro, cerchi continuamente di migliorarti. Nello sport è uguale con la differenza che una carriera sportiva dura otto, dieci anni e in quegli anni metti tutto te stesso. Lo sport vuol dire cercare di migliorarsi continuamente, certo facendolo in modo leale e corretto.

 

Il Giro d’Italia andrà avanti, lei è d’accordo che lo spettacolo debba continuare?

E’ stata lasciata assoluta libertà per la tappa di oggi ai ciclisti. Decidono loro cosa fare: se deve essere corsa sarà corsa, altrimenti sarà un lungo e doloroso cammino verso il traguardo. Ma io credo che il Giro debba continuare. Non sono un cinico, ma non sono neanche uno che fa retorica gratuita. Nessuno, in ogni cosa che facciamo, ci punta la pistola alla testa, siamo liberi di scegliere. Quando io ho perso i miei genitori ho scelto se starmene a casa con il mio dolore o tornare a lavorare. Avere cioè una reazione che vuol dire onorare i tuoi morti, lenire il tuo dolore. Vai a lavorare e magari lavori così e così perché dentro stai soffrendo, ma hai intorno gente che ti sostiene. I compagni di lavoro e quelli della squadra di ciclismo: è una comunità che ti sta attorno e ti sostiene. Fermarsi è sciocco. Se un compagno di squadra sente troppo dolore si ferma, un altro invece correrà. Io non vado ai funerali a guardare chi c’è. Ci sono persone che non vanno ai funerali e stanno a casa e onorano i defunti con più senso religioso e appartenenza di chi va in chiesa a firmare un registro e fare presenza.

(A cura di Paolo Vites)





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