CINEMA/ Il film di Neil Young: la guerra in Iraq è un “Déjà Vu” del Vietnam

- Paolo Vites

La pellicola racconta Freeedom of Speech (Libertà di parola) il tour che le star del rock Crosby, Stills, Nash e Young hanno affrontato due anni fa. Di musica nel film c’è ne è poca, ci sono soprattutto gli americani che raccontano di una America spaccata in due sul conflitto in Iraq. Proprio come ieri sulla guerra in Vietnam. Leggi la recensione

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Déjà Vu, titolo che non fa solo riferimento all’omonima canzone di CSN&Y, ma che vuole sottolineare come la guerra in Iraq sia un “già visto” rispetto a quella in Vietnam, è un film-documentario che uscirà nei cinema italiani ad ottobre. In questo film, che racconta il controverso tour che quattro tra le star più amate della storia del rock, gli oggi sessantenni Crosby, Stills, Nash & Young, hanno tenuto due anni fa, c’è una scena emblematica. Il tour si chiamava polemicamente Freedom Of Speech, libertà di parola, e invece di presentare i cavalli di battaglia del super gruppo, quelle canzoni che celebravano lo spirito hippie “pace amore & California” così in voga negli anni 70, si concentrava sulle canzoni di un disco solista di Young, Living With War, un feroce atto di accusa nei confronti dell’amministrazione Bush e della guerra in Iraq.

La scena, dicevamo: quando il tour arriva ad Atlanta, nel profondo Sud americano, in uno di quegli Stati definiti “blu” perché a maggioranza repubblicana, quando i musicisti attaccano il brano Let’s Impeach The President, “mettiamo il Presidente sotto accusa”, gran parte del pubblico fischia, contesta, mostra molto americanamente il dito medio ai musicisti, quindi si alza e se ne va. Mostrare questo aspetto apparentemente inaspettato del pubblico rock, per definizione – di chissà chi – automaticamente di sinistra, è uno dei pregi di un film che seppur politicamente schierato (e fatto uscire in America lo scorso luglio, ovviamente in pieno periodo di campagna elettorale presidenziale) non è affatto ideologico. Cioè non è un film di Michael Moore, per intenderci. “Libertà di parola non è solo il punto di vista di una singola persona” ha detto Neil Young. “Ero determinato a dare voce a ciò che pensava la gente che era ai concerti. Anche, e soprattutto, se fosse stato il punto di vista opposto al nostro. Devi rispettare chi esprime la propria rabbia, perché vuol dire che credono profondamente in qualcosa. Quello che ho cercato di fare con questo film è stato di lasciare che le cose accadessero, e che la gente dicesse che cosa provava”.

Di musica nel film c’è ne è poca (“Nessuno vuole sedersi in un cinema per due ore a sentire dei sessantenni suonare la chitarra” ha commentato ironicamente Young): ci sono soprattutto gli americani, gente comune e soldati, molti veterani dell’Iraq, che parlano. Che raccontano di una America spaccata in due e soprattutto ci fanno capire quanto poco sappiamo ancora, qui in Europa di questo Paese. Molti, ad esempio, difendono la guerra in Iraq perché convinti che il proprio Paese, dopo gli attentati dell’11 settembre, abbia subito un attacco, proprio come a Pearl Harbour nel 1941, e stia solo difendendosi dal suo nemico.

Le scene che riguardano i soldati, poi, sono trattate con massimo rispetto nei confronti di chi si trova impegnato a combattere. Nessuno slogan a base di insulti, come certi personaggi qui da noi ci hanno fatto spesso sentire nei confronti di chi è morto laggiù. Come ricorda lo stesso Young, l’idea di comporre un disco polemico come Living With War non gli venne per chissà quale strategia politica, ma dopo aver visto una foto su una rivista in cui veniva mostrato un aeroplano trasformato in ospedale. Il giornale commentava la foto sottolineando quali grandi progressi medici e scientifici si erano fatti, riuscendo a curare dei feriti in volo. Young si è invece domandato: e di questi ragazzi feriti a morte nessuno dice niente? Circa quarant’anni fa, sempre Neil Young, dopo aver visto una foto sulla rivista Life di uno dei quattro studenti uccisi dalla Guardia Nazionale durante una manifestazione alla Kent State University dell’Ohio, scrisse di getto un brano che diventò in pochissimo tempo l’inno dei giovani che manifestavano contro la guerra in Vietnam, la canzone Ohio, incisa appunto con CSN&Y.

Quarant’anni dopo CSN&Y sono tornati a reclamare il loro ruolo di “disturbatori dell’establishment”: molto interessanti sono le interviste con i quattro musicisti in si interrogano sul loro ruolo di musicisti: intrattenitori o anche persone che si sentono autorizzate a raccontare quanto succede nella società che li circonda. Anche se i tempi sono cambiati, come dice Neil Young: “La differenza tra quanto accadeva negli anni 60 e oggi è che non c’è più la leva obbligatoria. Allora tutti rischiavano di andare a morire e quella fu la molla principale della protesta. Oggi i giovani non si sentono minacciati da una guerra che non fa parte della loro realtà”. Realtà che il film Déjà Vu invece racconta, e molto bene. Realtà che lo stesso Young capisce essere più grande di una “canzone rock”. Non è un caso che quest’anno abbia presentato dal vivo una canzone che si intitola Just Singing a Song Won’t Change The World, cantare una canzone non cambierà il mondo. Commentando: “Credo che il tempo in cui la musica poteva cambiare il mondo sia finito. Credo che sarebbe davvero infantile pensare una cosa del genere in questa epoca. Credo che il mondo oggi sia un posto differente e che sia il tempo piuttosto per la scienza, la fisica e la spiritualità di fare la differenza e cercare di salvare il pianeta”.

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