OLDBOY/ Spike Lee e un film che “trascina” lo spettatore tra violenza, mistero e redenzione

- Federico Bason

Spike Lee gira un remake impegnativo di un film coreano del 2003. Secondo FEDERICO BASON, il tocco dellartista afroamericano si vede: siamo di fronte a una prova da fuoriclasse

OldBoyR439 Una scena del film

La vita di Joe Doucett è un disastro. Lavorare significa una bottiglia piena di vodka, partecipare a cene eleganti. Cene professionali, dove stringere amicizie e siglare contratti, peccato che Joe sia costantemente ubriaco, tanto da vomitare e urinare dove capita. I potenziali clienti sono disgustati, ormai è una costante, lo mandano al diavolo. Zero contratti è uguale a zero contanti, la regola della disperazione, che porta a bere vodka per anestetizzare la sofferenza.

In questa vita ingrata, rimane sempre la famiglia: Marie, la figlia di 3 anni, Donna, moglie devota. Peccato che ora le cose non stiano esattamente così. Joe non ha voglia di vedere la figlia, non le interessa. La moglie arriva a odiarlo perché non lo considera né un padre, né un marito allaltezza. Lunica soluzione è sempre la strada del bar, salire sullo sgabello, appoggiarsi sul bancone, e ordinare un bicchiere, un altro ancora, lintera bottiglia. Perdere i sensi è la norma, accasciarsi per strada in mezzo ai rifiuti è il tragico epilogo.

Stavolta è diverso. Joe, dopo lennesima sbornia, si ritrova rinchiuso in una stanza, da solo, senza possibilità di fuga. imprigionato; da chi, un mistero. Ecco che inizia la storia. Spike Lee gira un remake impegnativo. Oldboy è un film coreano del 2003, quello di ieri e quello di oggi hanno in comune una forte dose di violenza e redenzione. Stavolta la bellezza della regia impatta nella storia, il tocco dellartista afroamericano è visibile nelle immagini di disperazione, cartoline in movimento, che tratteggiano la vita decadente di Joe, la sua rinascita furiosa. Ci troviamo di fronte a una prova da fuoriclasse.

Le scene di pioggia valgono il prezzo del biglietto e richiamano (nelle inquadrature e nel gioco di luce), un videogioco, noto per i temporali drammatici, Heavy Rain, che ha come protagonista un bevitore di alcol. Joe riuscirà a disintossicarsi dalla bottiglia? Perché è rinchiuso per 20 anni in un stanza? Chi è il suo carceriere? Come mai un giorno si ritrova allinterno di una valigia?

Il lungo cammino per la libertà si arricchisce di scene splatter, è bene saperlo. La pellicola, trascinante nellazione, poggia una delle chiavi di lettura sullultraviolenza, quella che Tarantino ha sdoganato in pieno. Può piacere o meno, resta il fatto che Spike Lee abbia lavorato per amalgamare azione e immobilismo in una storia che difficilmente lascia indifferenti. Troviamo scene di combattimento, stile 1 contro 1000, talmente surreali da esorcizzare la violenza (vedere un esercito di killer, armato fino ai denti, cadere sotto i colpi di un martello da falegname è un must); infine, laspetto intimistico: il rapporto difficile padre/figlia, uomo/donna, la sessualità morbosa e i sentimenti che possono incendiare più del sesso.

La caratteristica visione della vendetta, in senso occidentale, decade, elevando le emozioni non a reazioni ma a tempo indefinito, anni, venti per la precisione. Joe sarà vittima sacrificale per un torto, uno sgarbo, a cui legherà la sua vita e di chi gli vuole bene. Questo andare alla ricerca della colpa, del colpevole, non è la sintesi di Oldboy; è la sottile sensazione che divide un comportamento mostruoso (il segreto dell’aguzzino e la sua famiglia) da un comportamento che è solo incosciente (Joe adolescente, descritto dalla direttrice della scuola come elemento cattivo).

In tutto il fuoco di azione, disperazione, comicità (le scene di violenza sono affrontate fumettisticamente) si staglia un demone che dovrebbe far riflettere. L’Oldboy, quello sbandato, quello imprigionato dentro quattro mura, è sottomesso al demone dell’alcol. Simile a una tragedia greca, il disfacimento del protagonista, dagli anni del liceo ai bar di periferia, viene segnato dalla bottiglia, dalle azioni sconsiderate che il veleno alcolico produce. Nel film riviviamo la massima orientale, che dice che non c’è peggior colpa di quella di non aver padronanza di se stessi; un incubo incessante nel film a cui lo spettatore assiste e, insieme al protagonista, non vuole esserne prigioniero.





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