SUBURRA/ Il film che restituisce un “lavoro” al cinema italiano

- Emanuele Rauco

Stefano Sollima torna al cinema con un film ispirato al romanzo di Bonini e De Cataldo sul malaffare della Capitale italiana. La recensione di EMANUELE RAUCO

SuburraR439 Una scena del film (foto di Emanuela Scarpa)

C’è una cosa, tra le varie, che il cinema italiano commerciale – o per dirla con termini contemporanei mainstream – ha smesso di fare. Guardare la realtà. E non attraverso i filtri del cinema civile, d’impegno o politico come nella stagione dei Rosi e dei Petri, ma attraverso le strutture del dramma o del genere. A guardare a un cinema popolare in cui la realtà non è un pretesto ma l’intera posta in gioco ci pensa Stefano Sollima, che dopo i successi con ACAB e le serie tv “Romanzo Criminale” e “Gomorra” torna al cinema per riportare in immagini un altro romanzo di Bonini e De Cataldo, ovvero quel “Suburra” che scoperchiò il verminaio capitale con molti mesi di anticipo rispetto alle inchieste. 

Il film ruota attorno alla costruzione di una nuova Las Vegas vicino al litorale e ai membri che ne bramano la costruzione e i guadagni: un politico che però ha sul groppone la morte di una prostituta, un vecchio fascista che gestisce l’economia romana con metodi criminali, la malavita rom e due scalcagnati criminali di Ostia, un pr deciso a svoltare la propria posizione economica e sociale. Una rete di personaggi lontani che passo dopo passo si avvicineranno, a 7 giorni da un’apocalisse politica e religiosa. 

Sullo sfondo, infatti, la sceneggiatura di Stefano Rulli, Sandro Petraglia e gli autori del libro, pone in un corto circuito due eventi davvero apocalittici dell’Italia degli ultimi anni: le dimissioni da premier di Berlusconi – che nel 2011 lasciò il parlamento tra urla e caroselli, come una liberazione – e quelle di papa Ratzinger, nella realtà avvenute 18 mesi dopo, ma che servono a creare un tessuto connettivo tra politica, alti prelati, economia e criminalità per questo noir in cui le strutture di genere si sposano ottimamente con l’approccio inquisitorio del libro. 

Sollima ambienta tutto il film in una Roma notturna e quasi sempre battuta dal temporale, in cui come l’acqua battente fa ribollire le fogne tirando fuori a galla il marciume, così Suburra scava sotto la realtà e ne fa emergere i segni, quei tratti che il libro e la sceneggiatura hanno codificato sotto nomi allusivi, ma che oggi riusciamo a leggere chiaramente, dando corpo e spessore alle ipotesi. Il regista è bravo a sfruttare l’alchimia tra romanzieri e giornalisti e se ne serve per realizzare un film che è un affresco trascinante vestito da film nero, in cui le dinamiche del polar francese e del poliziottesco si sposano con vigore. 

Un film energico, pieno di forza corrusca, di eccessi e carica espressionista che però Sollima sa controllare e gestire con talento dando tocchi di sotterraneo lirismo (Numero 8 che disegna la futura Las Vegas dal vetro di casa, Samurai alle prese con la madre) a un film pre-apocalittico che pare quasi un monito all’incapacità (all’avversione?) di leggere i segnali che la cronaca ci stava dando. 

Suburra riesce quindi a raccontare, descrivere e analizzare la realtà e il sotto-strato di Roma, con mezzi rumorosi e di grana grossa forse, ma anche con assoluta padronanza di mezzi, ritmi, tempi e gesti cinematografici, confermando Sollima come degno erede del padre (Stefano, da poco scomparso), cineasta come ce ne sono pochi, forse nessuno oggi e anche direttore di attori da encomiare: guardare cosa è riuscito a tirare fuori dal duo Alessandro Borghi/Greta Scarano per credere. 







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