IL PETROLIERE/ Il film che va al cuore degli Usa (dando uno schiaffo al moralismo calvinista)

- Leonardo Locatelli

Il film Paul Thomas Anderson uscito 10 anni fa è un'opera che va al cuore di un Paese dove l'unica ossessione è il possesso della realtà come pura affermazione di sé. LEONARDO LOCATELLI

Petroliere_1_web Una scena del film

«Non mi piace spiegarmi. […] Sento la competizione in me. Non voglio che altri abbiano successo. Odio la maggior parte delle persone. […] A volte… guardo la gente e non ci trovo niente di attraente. Voglio guadagnare abbastanza per stare lontano da tutti. […] Io vedo il peggio nelle persone, Henry. Non ho bisogno di conoscerle, per sapere chi sono in realtà, per capire quanto le disprezzo. Ho innalzato la mia barriera d’odio anno dopo anno, poco a poco»: in questi brevi spezzoni di dialogo, sibilati durante una bevuta notturna davanti al fuoco e accanto all’uomo che solo poche ore prima gli si è parato di fronte presentandosi come suo fratello, c’è praticamente tutto il personaggio di Daniel Plainview (interpretato da Daniel Day-Lewis, sulle cui spalle – almeno davanti alla macchina da presa – poggia letteralmente l’intero film), il ferino protagonista de Il petroliere che – adattato per lo schermo, coprodotto e diretto dal talentuoso “maverick” Paul Thomas Anderson, liberamente ispiratosi ai primi capitoli del romanzo Oil! di Upton B. Sinclair (1927, inedito in Italia), a sua volta scritto dall’autore prendendo a riferimento la figura del magnate dell’industria petrolifera Edward L. Doheny (1856-1935) – il 26 dicembre di dieci anni fa, dopo una primissima proiezione svoltasi a New York due settimane prima (10 dicembre), usciva con il (decisamente più denso ed evocativo) titolo originale There Will Be Blood in un numero limitato di sale statunitensi, in tempo per poter concorrere agli Academy Awards 2007.

Si tratta del racconto di circa una trentina d’anni della tanto ascendente quanto spaventosa carriera (ma pure del relativo disfacimento morale dal punto di vista umano) del dapprima solitario cercatore d’argento e poi caparbio estrattore di petrolio al centro del film, che vive (anche) del confronto-scontro senza esclusione di colpi con l’ambigua figura del predicatore evangelico revivalista Eli Sunday (interpretato da Paul Dano), giovane figlio di poveri contadini interamente votato a un riconoscimento e un successo di carattere puramente personali. Una lotta al termine della quale tra i due scorrerà realmente del sangue. 

Nella sua recensione dal titolo “There Will Be Blood: An American Tragedy” apparsa su “Time” del 24 dicembre 2007, il compianto critico Richard Schickel scriveva che «per metter[la] in termini puramente cinematografici, Daniel Plainview diventa il nonno di Gordon Gekko [il personaggio di self-made man della finanza interpretato da Michael Douglas e protagonista di Wall Street (1987, Oliver Stone), ndr]. E diventa completamente pazzo. È il genio (e uso questa parola con cognizione di causa) della performance di Daniel Day-Lewis a mostrare lentamente, pazientemente la follia che sostituisce il suo precedente razionalismo, a prepararci al sorprendente finale del film […] che contiene ciò che – per quanto resistente ai superlativi – considero i più esplosivi e indimenticabili dieci o quindici minuti di recitazione cinematografica cui abbia mai assistito».

In un prologo di quasi un quarto d’ora retto dalla sola potenza di immagini e sonoro – un exploit da cinema d’altri tempi, quello dei pionieri della settima arte – solo due date sono fornite in didascalia al pubblico: 1898 e 1902. Di seguito riportiamo quindi due voci coeve di quelli che in un prezioso volume curato da Piero Bairati (Einaudi, 1975) sono stati definiti “i profeti dell’impero americano”: «Questa è l’opera non di un giorno o di un anno, ma di un’epoca storica: l’epoca dell’espansione commerciale della repubblica e perciò dell’espansione delle istituzioni di questa repubblica. Infatti la libertà, l’ordine e la civiltà non vengono imposti con discorsi o saggi o editoriali; i loro semi crescono nel pugno del commercio e vengono gettati dalle mani della potenza» (Albert J. Beveridge, in un discorso del 27 aprile 1898, cioè tre giorni dopo la dichiarazione di guerra degli Stati Uniti alla Spagna). «[G]li uomini si sono sviluppati nel loro ambiente, come gli altri animali, e le loro qualità intellettuali, morali e sociali possono essere considerate dei risultati della lotta per la vita… Per vivere ogni animale adopera i mezzi più adatti alla sua natura, ma, poiché le condizioni esterne sono in continuo movimento, il destino dell’uomo dipende in gran parte dalla sua flessibilità. […] La vita può essere distrutta tanto dalla guerra quanto dalla competizione pacifica. […] [P]er fame o per ferro, la natura raggiunge sempre il suo scopo. La natura odia i deboli» (Brooks Adams, Il nuovo impero, 1902).

Quella uscita «come alberello d’oro dalla folle, magnifica testa di Paul Thomas Anderson» (queste le parole di Day-Lewis al momento di ritirare il meritatissimo premio Oscar per il migliore attore protagonista di quell’anno) è un’opera che intende andare direttamente al cuore di un Paese (la mitica frontiera del “destino manifesto”, sporcata dall’oro nero di Plainview e sedotta dai sermoni di Sunday) dove l’unica ossessione è il possesso della realtà come pura affermazione di sé: decisamente un sonoro schiaffo al moralismo di matrice calvinista, secondo cui all’accumulo di una certa fortuna (anche materiale) da parte di un individuo deve pure corrispondere una sua effettiva levatura morale. 

Mancavano ancora un centinaio d’anni (nella realtà) e solo tre (in fatto di industria cinematografica) alla rappresentazione del capitalismo 2.0 di The Social Network (2010, David Fincher)…





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