INCHIESTA/ 3. Ecco come cominciò l’assalto ai “gioielli” di Iri, Eni ed Efim

- Gianluigi Da Rold

Terza puntata dell’inchiesta di GIANLUIGI DA ROLD dedicata alle privatizzazioni avvenute nel recente passato dell’Italia

Cuccia_EnricoR400

Facciamo un passo indietro nel “romanzo giallo” delle privatizzazioni italiane. Abbiamo visto che il “caso Sme” è una sorta di apripista, una “prova generale” che si tenta nel 1985 e deve poi essere rivista, spezzettando vari settori controllati da quella finanziaria dell’Iri per fare una discreta cassa, un incasso accettabile da parte dello Stato, anche se, a conti fatti, l’incasso risulterà molto inferiore rispetto al “tesoro” che realizzano alcuni privati.

Questo passo indietro è necessario per inquadrare quello che matura dopo la metà degli anni Ottanta e quindi all’inizio degli anni Novanta. L’economia di Stato implode come concetto e come realtà. Si pensi all’agonia dell’impero sovietico. Ma anche i correttivi keynesiani nel capitalismo occidentale diventano un peso che, per molti, è insopportabile. Si potrebbe dire che, da un punto di vista storico, i liberisti di tutto il mondo si prendono una grande rivincita con John Maynard Keynes.

E non a caso, in campo pubblicistico, vengono riscoperte la “scuola austriaca”, von Hayek e von Mises, fino alle teorizzazioni dell’Università di Blackburg in Virginia, dove Milton Friedman viene considerato un “Messia” e si teorizza la rivalutazione dell’individualismo economico. I presupposti sono una concezione dell’uomo che si muove sul principio della massimizzazione: l’uomo è un essere economico e massimizzante. A questo punto le società si riducono ad agglomerati di individui che perseguono il proprio profitto. La signora Margaret Thatcher, dotata di grande fiuto politico, riassumerà questa concezione, con una frase choccante: “La società ? Non esiste”.

È in questo clima culturale che la necessità (importante e decisiva per il futuro dell’economia, anche quella italiana), di privatizzare prende un’accelerazione “velenosa” e viene sostenuta, con voce troppo alta, da quelli che sono schematicamente definiti i “poteri forti” italiani. Tutto questo, nella stagione delle privatizzazioni, avrà un peso decisivo, anche perché l’apparato mediatico dei privatizzatori a oltranza è di fatto quello che costruisce l’opinione pubblica, essendo i proprietari dei giornali più “autorevoli” e più venduti.

In sintesi, in Italia, gli enti che hanno tamponato prima la grande crisi degli anni Trenta (Iri), poi hanno garantito lo sviluppo economico del Dopoguerra (Eni), e ancora hanno pilotato la riconversione della produzione bellica in industria del Paese (Efim) sono diventati una sorta di “ricettacoli” di industrie decotte, di carrozzoni che potevano solo essere materia di studio per archeologia industriale. In realtà, bisogna lasciare da parte l’Eni, che aveva una storia di grande prestigio internazionale, soprattutto nei paesi del Terzo Mondo, da Enrico Mattei in poi. L’Eni non era solo una fucina di una nuova classe dirigente, ma una sorta di carta d’identità del sistema Italia nel mondo. E sull’Eni i privati del “salotto buono “ italiano si limitano a interessarsi solo ad alcuni settori, non avendo né risorse finanziarie per acquisire, né il necessario know how .

Continua

Quindi i cosiddetti “poteri forti” guardano soprattutto all’Iri e all’Efim e puntano sui cosiddetti “rami buoni” di questi due enti. Il regista di questa operazione di privatizzazione è Enrico Cuccia che, malgrado alcuni grandi dubbi e dissapori soprattutto con Romano Prodi, ritiene ancora che il capitalismo italiano, quello di Gianni Agnelli tanto per intenderci, deve rafforzarsi attraverso il processo di privatizzazione. Diversa la situazione di Iri ed Efim. È vero che questi due enti di Stato hanno “in pancia” degli ottimi alberi, ma anche molti “rami secchi”. Ed è senza dubbio necessario riformarli, svincolarli dalla politica.

 

Tuttavia tutto il sistema della Partecipazioni statali, che viene “aggredito” mediaticamente e anche giudiziario negli anni di tangentopoli, non può essere condannato sbrigativamente in sede storica. C’è bisogno innanzitutto di una riforma, di uno svecchiamento, poi di una graduale privatizzazione e quindi di una con seguente liberalizzazione. La condanna indiscriminata non serve e non è vera. Se ci si ricorda solo brevemente della “santa” battaglia del sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, in favore di un “Pignone” in bancarotta, e della pressione che tanti settori della società italiana italiano fecero su Enrico Mattei, per salvare l’occupazione, si capisce qualche cosa in più del sistema italiano di quegli anni.

 

Alla fine Mattei dovette comprare quella fabbrica, convertendo la produzione in macchine per l’estrazione del petrolio e creando il “Nuovo Pignone”. Salvò così l’occupazione. Ma questo è solo un esempio che vale per tutta l’Italia dell’epoca, dove le imprese decotte venivano salvate dagli enti di Stato, che alla fine diventavano una sorta di ammortizzatore sociale che garantiva l’indispensabile di stabilità sociale e politica in quegli anni. Senza le tanto chiacchierate “cattedrali nel deserto”, il Mezzogiorno d’Italia sarebbe diventato una polveriera sociale e politica. Il “metalmezzadro”, così fu chiamato l’operaio siderurgico di Taranto da Walter Tobagi, fu proprio una sorta di ammortizzatore sociale, la cui presenza atipica evitò il peggio sotto molti punti di vista.

 

Malgrado questo lo sviluppo italiano continuava, fino all’entrata nel G7 e fino all’interesse per i “gioielli” di quei sistema “pubblico-privato” sia da parte straniera, sia da parte dei “poteri forti” italiani. È questo il retroscena che si muove in piena tangentopoli e che promuove e accompagna il piano delle privatizzazioni italiane: disinformazione storica, scarsa valutazione politica e fretta di realizzare.

 

Continua

Sarà un caso, ma in piena tangentopoli, esattamente il 12 maggio 1993, Mani Pulite entra in via Veneto nella sede dell’Iri a rovistare tra le carte di Franco Nobili, che aveva avuto il merito di spezzettare la Sme e quindi di farla vendere almeno quattro volte di più di quanto la voleva vendere Prodi nel 1985. Subito dopo il presidente del Consiglio dell’epoca, Carlo Azeglio Ciampi, decide tra due candidature per la sostituzione di Nobili: Bruno Visentini e Romano Prodi. C’è una spaccatura nel governo, ma il gruppo “laRepubblica-Espresso” sponsorizza a grandi titoli il ritorno di Prodi. E così avviene .Il 14 maggio 1993 Nobili firmerà le dimissioni, il 15 maggio Prodi ritorna trionfante in via Veneto.

Particolare non proprio insignificante. Nobili, come abbiamo già scritto, finirà in galera. L’integerrimo pm Antonio Di Pietro lo tiene due mesi a San Vittore. Poi, passato questo tempo, si ricorda di interrogarlo sull’intrecciopolitica e affari e ne escono due cartelline di verbale, dove Nobili nega tutto. Avrà ragione Nobili: viene assolto “perché il fatto non sussiste” nel 2000. Ma intanto dal 15 maggio 1993 Romano Prodi è insediato. Festeggia “laRepubblica”, fanno festa i boiardi di Stato della sinistra Dc che non sono neppure stati sfiorati dalle inchieste. Non si capisce bene che cosa festeggino gli “ultimi comunisti” o i “post-comunisti”.

 

Intanto con Prodi all’Iri, Cuccia a Mediobanca comincia a dubitare e anche a incavolarsi. Comincia la danza delle privatizzazioni e l’assalto agli enti di Stato. Uno spettacolo mai visto al mondo.

 

(3-continua)





© RIPRODUZIONE RISERVATA

I commenti dei lettori

Ultime notizie