CASO FASTWEB/ L’avvocato: ora tocca ai Pm pagare per l’errore su Scaglia & co.

- Carlo Tremolada

Come scrive CARLO TREMOLADA, l’inverosimile odissea giudiziaria di Scaglia & co. è giunta a lieto fine. Il lieto fine non può eludere però una domanda amara: chi ripara tutto questo male?

roma_quirinale_giustiziaR439 Il Quirinale visto dalla Consulta (Infophoto)

Si è conclusa ieri sera la lunga odissea giudiziaria che nel 2010 aveva travolto Silvio Scaglia e alcuni top manager di Fastweb. La prima sezione penale del Tribunale di Roma, dopo un dibattimento durato oltre due anni, ha assolto con formula piena il fondatore ed i manager di prima linea della società telefonica coinvolti in quello che qualcuno ha definito il caso di frode fiscale più grave del secondo dopoguerra. Ora è finalmente chiaro che Fastweb non fu complice, ma vittima di un clamoroso raggiro compiuto da un manipolo di soggetti malavitosi e faccendieri senza scrupoli. La vicenda giudiziaria di Silvio Scaglia e dei manager di Fastweb ha davvero dell’incredibile. Nel gennaio del 2005 un vecchio ed insospettabile cliente di Fastweb propone alla società telefonica italiana di prestare le proprie linee per il transito di consistenti volumi di traffico telefonico tra un aggregatore straniero ed un provider italiano.

Si tratta di un tipo di servizio che la società telefonica italiana presta normalmente, e d’altra parte l’operazione proposta dal vecchio cliente non presenta in sé alcun carattere di anomalia. Fastweb fattura le proprie prestazioni all’aggregatore e versa regolarmente l’iva, ignorando del tutto che quel traffico telefonico in realtà non esiste e che si tratta soltanto di impulsi elettronici generati da sofisticati sistemi informatici che passando attraverso le centraline di Fastweb attivano il sistema di conteggio dei minuti, dando l’impressione che dai cavi della società telefonica scorrano conversazioni reali. La stessa Guardia di Finanza scoprirà il raggiro solo all’esito di lunghe ed articolate indagini impiegando strumenti investigativi di cui certamente una società privata non dispone.

E’ la stessa Fastweb – peraltro – dopo avere versato nell’arco di due anni nelle casse dello Stato iva per oltre cento milioni di euro – ad interrompere il business non appena comincia a nutrire i primi sospetti circa l’effettività dell’operazione propostale nel 2005. Per i Pubblici Ministeri l’ipotesi che Fastweb ed i suoi manager siano vittime inconsapevoli di un’operazione fraudolenta ordita da una banda di faccendieri senza scrupoli non viene neppure presa in considerazione, nonostante i seri dubbi manifestati in proposito dalla Guardia di Finanza di Roma nel rapporto conclusivo consegnato alla Procura di Roma. Fastweb non poteva non sapere – questo è l’assunto dei P.M. – ed un tale giro di fatture per operazioni inesistenti non può essere stato realizzato senza la complicità dei vertici della società telefonica.

Non vi sono prove, ma il teorema ideato dalla Procura di Roma è più forte e travolge anche i più elementari principi di diritto. Silvio Scaglia ed i manager di prima linea di Fastweb nel febbraio del 2010 vengono arrestati (rimarranno in stato di custodia cautelare per oltre un anno), i loro patrimoni personali sequestrati, mentre le quotazioni di borsa del titolo Fastweb vanno a picco ed una società considerata sino a quel momento un gioiello dell’imprenditoria italiana viene screditata di fronte all’intera comunità finanziaria internazionale. Ora i Giudici della prima sezione penale del Tribunale di Roma hanno riconosciuto che le accuse mosse agli esponenti della società telefonica erano errate ed inconsistenti.

La lunga carcerazione preventiva sofferta da Silvio Scaglia, Roberto Contin e Mario Rossetti, i sequestri preventivi che hanno privato per lungo tempo le loro famiglie dell’intero patrimonio, l’estenuante attesa prima essere riconosciuti innocenti, gli enormi danni reputazionali causati ad una società tra le più efficienti nel panorama internazionale furono dunque il frutto – così hanno riconosciuto i Giudici di primo grado – di una ricostruzione accusatoria assurda e sfornita di ogni riscontro. Bene, finalmente, anche se forse troppo tardi, l’inverosimile odissea giudiziaria di Scaglia & co. è giunta a lieto fine. Il lieto fine non può eludere tuttavia una domanda amara: chi ripara tutto questo male? Chi pone rimedio alle sofferenze patite dai manager riconosciuti innocenti solo dopo lunghi e drammatici anni? Ed ancora: può un sistema democratico tollerare ancora a lungo che gli esponenti di un Potere (quello giudiziario) esercitino le loro funzioni in assenza di meccanismi istituzionali che li chiamino a rispondere delle conseguenze del loro operato ?

Non si tratta ovviamente di invocare ideologiche misure punitive a carico della magistratura, ma di cominciare a riflettere – questa volta seriamente – se abbia un fondamento (e a parere di chi scrive, un fondamento ce l’ha) il recente richiamo della Commissione UE nei confronti del nostro Paese, accusato di essersi dotato di una legge sulla responsabilità civile dei magistrati eccessivamente indulgente e troppo incline a proteggerli dalle conseguenze del loro operato, e per questo già condannato dalla Corte di Giustizia europea nel novembre del 2011. Se l’Italia è parte dell’Unione Europea accetti le sue regole anche quando ciò significa infrangere un “tabù” nazionale.





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