TUMORE A 11 ANNI/ Così il piccolo Reece ci insegna che la vita e la morte non sono in guerra

- Monica Mondo

Reece Puddington, 11 anni, malato di cancro, ama a tal punto la vita da voler vivere i suoi ultimi momenti a casa sua, con gli amici e la sua famiglia. E ha sospeso le cure. MONICA MONDO 

malato_finevita_cancroR439 foto Infophoto

Pensate a Reece Puddington, che ama a tal punto la vita da voler vivere i suoi ultimi momenti vivendo, a casa sua, con gli amichetti e la sua famiglia. Pensate a Reece, che ha il fegato, seppur malato, di raccontare le sue vicende su facebook, e di spiegare a tutti perché ha deciso di lasciarsi andare, di non proseguire le cure.

Reece è inglese, ha 11 anni, ha un cancro devastante. Fa la chemio e la radioterapia da quando, a 5 anni, gli hanno diagnosticato un neuroblatsoma, annidatosi nelle cellule dal suo sistema nervoso dal suo stato embrionale. Giust’appunto, diranno, se con qualche analisi lo scoprivano dall’inizio, evitavano a una creatura infelice di venire al mondo. Eppure vedo su fb le foto di Reece, che fa la linguaccia in biciletta, e non pare affatto infelice. Che ride con sua madre, Kay, cui lo unisce una complicità adulta e rara.

Kay ha fatto di tutto per suo figlio, come il papà. Hanno vissuto tra l’uno e l’altro ospedale del regno, hanno sperato di stroncare la malattia, che le cure facessero effetto. Sembrava così. Poi il fatale, terribile verdetto: il tumore ha preso il fegato, niente da fare. Si poteva, certo, e si può, continuare con quelle sedute tremende con la flebo che ti sfiancano, con la nausea, il vomito e le corsie d’ospedale. Oppure si poteva scegliere di combattere in altro modo, sorridendo, giocando, facendosi abbracciare da mamma e papà, affidandosi.

E’ questo che intende Reece quando scrive “che la natura faccia il suo corso”. Aggiunge che ci hanno pensato molto, in famiglia, a quando sarebbe stato abbastanza, anzi troppo. Per i suoi genitori, spiega come se fosse lui il “grande”, quel momento non sarebbe venuto mai. Ma per lui è arrivato: è stanco, vuole la sua casa, basta medicine. “L’inizio della fine”, così ha titolato la lettera sul social che sta commuovendo il mondo, non è affatto una resa. Non ha subito inganni, Reece, anzi, la verità gli è stata detta in modo anche troppo crudo. Forse si potrebbe, senza venir meno ai doveri medici, rendersi conto che un bambino è un bambino, e lasciare sempre aperta la porta al futuro. Non è illusione, ma tenerezza, perché non tutti sono tosti e forti come Reece, ragazzini più fragili potrebbero schiantarsi per dolore dell’anima, ancora più lancinante di quello fisico.

Dunque Reece è stato trattato da uomo, nella pienezza della sua libertà. Non gli hanno di nascosto propinato morfina per addormentarlo, e nel sonno profondo farlo trapassare con la dolce morte. Com’è accaduto ai figli di Goebbels, quando il padre gerarca aspettava i russi, e non voleva che il suo sangue fosse sporcato dalle loro mani. Come avviene in Belgio, ad esempio, dove hanno appena deciso che quando le sofferenze sono tante, e inutili, quando i genitori lo chiedono, lo ritengono, anche un bambino può essere accompagnato alla morte. 

Le parole hanno un peso: e l’aggettivo inutile, applicato a sofferenza, è fuori luogo. E il verbo accompagnare non andrebbe mai e poi mai usato per spingere alla morte. La compagnia di un uomo a un uomo è per la vita, anche su un letto di agonia. Non per liberarmi di te, o dell’angoscia che il tuo male mi suscita, ma per stringerti la mano forte, e condividere, cambiando il mio cuore.

Non confondiamo, allora, non facciamoci prendere neanche per un attimo dal pensiero “sì, meglio finirla, che continuare così, che vedere un figlio andarsene così”. Perché è il figlio, il protagonista, non i suoi genitori, benchè straziati. E’ lui che non vuole più medicine, e sappiamo che non è un capriccio: dopo otto anni di terapie tanto invasive, un ragazzino ha pure il diritto di godersi un tempo normale, di andare a far colazione da Wethersoon’s, per esempio, avere in dono il nuovo X Box One, farsi una foto co Johnny Depp travestito da pirata dei Caraibi.

Non vuole l’accanimento terapeutico, Reece, anche se non lo dice con un’espressione così fredda e appropriata. Vuole farci riflettere, questo moccioso inglese, sul fatto che vita e morte non sono in guerra, ma la seconda è parte della prima, com’è naturale per tutto. E poi, aggiungiamo, la scommessa è che la vita continui, in altro modo ma continui, per sempre, e tu possa godertela tutta quest’eternità dolce e intensa, gioiosa. Jack Sparrow, corri nel Kent, cerca la cittadina di Whitstable, chiedi dov’è il pirata più forte al mondo. Fatti una foto con lui, e prendilo a modello, quando navigherai tra le tempeste o sfiderai fiere e nemici.





© RIPRODUZIONE RISERVATA

I commenti dei lettori

Ultime notizie

Ultime notizie