BIMBO SENZA CRANIO/ Jaxon e il miracolo di dire alla mamma “ti amo”

- Roberto Persico

Jaxon Buell, bimbo inglese nato con una rarissima malformazione che lo priva di una parte del cervello, in un video dice a sua mamma "I love you". Il commento di ROBERTO PERSICO

jaxonbuell_bambino_malformazioneR439 Il piccolo Jaxon Buell (foto mirror.co.uk)

È con timore e tremore, con infinito rispetto del dolore umano e con infinito stupore per la grandezza dell’animo umano, che mi permetto di dire qualcosa della vicenda di Jaxon Buell, il bimbo inglese nato con una rarissima malformazione che lo priva di una parte del cervello, che in un video postato su Facebook e rilanciato dall’inglese Mirror dice a sua mamma «I love you». Con timore e tremore, ma insieme con negli occhi le facce di tanti amici che conosco, che hanno avuto bimbi a cui “manca un pezzo” — di cervello, come ai figli di Mario e di Cristiano; di cuore, come al bimbo di Cristina — e che hanno voluto, e vogliono, bene a questi figli “incompleti”. Come fanno?

Spero di non farla troppo lunga se dico che questo sguardo ha qualcosa a che fare con la natura del peccato originale. Provo a spiegarmi. Quando Adamo ed Eva hanno combinato il guaio, arriva il Signore — dice la Bibbia — e i due si nascondono. «Perché vi siete nascosti?» domanda Dio. «Perché eravamo nudi». «E chi vi ha fatto sapere che eravate nudi?».

Ecco il punto. Normalmente, qui si spiega che hanno cominciato a rendersi conto del bene e del male, della morale eccetera. Invece no. È proprio un problema di conoscenza. «Chi vi ha fatto sapere che eravate nudi?» equivale a dire: «Chi vi ha fatto pensare a qualcosa che non esiste?» Perché, per dire “sono nudo” occorre pensare “mi manca qualcosa”. Fino ad allora, prima del peccato, pensavano solo a quel che è, quel che c’è, quel che esiste; la tentazione del diavolo sta tutta qui: spostare lo sguardo da quel che c’è a quel che non c’è (chi volesse qualcosa di meglio della mia rozza sintesi può leggersi Perelandra di C.S. Lewis, meravigliosa raffigurazione letteraria della battaglia fra il Tentatore e la Eva di un altro pianeta, tutta giocata sul tentativo del Nemico di indurla a desiderare qualche cosa di diverso dalla realtà). 

E non c’è bisogno di essere credenti. Si può leggere la Bibbia come un mito che rappresenta il dramma originario di ogni essere umano: guardiamo quel che manca e non quel che c’è; ci lamentiamo per quel che noi pensiamo dovrebbe esserci, e non ci godiamo quel che c’è. Guardiamo tutto per differenza rispetto al modello che abbiamo in mente noi. E così non ci va mai bene niente: il caldo e il freddo, i figli (anche quelli “sani”, non sono mai come li vorremmo…) e la moglie, il lavoro e gli amici… non è questo l’inferno? Una vita passata a giudicare insufficiente la realtà, perché non corrisponde all’immagine che ne abbiamo noi? 

Lo sguardo di Dio invece è lo sguardo che vede solo l’essere: gode e ama quel che c’è, ama tutto quel che c’è così com’è, non perde tempo a lamentarsi per quel che non c’è. Mario ha raccontato in decine di incontri pubblici — perciò penso lo si possa anche scrivere — che quando è nata Anna, gravemente cerebrolesa, don Giussani si è precipitato in ospedale e l’ha presa in braccio e l’ha guardata con tenerezza infinita: «Ho passato la vita — conclude Mario — a imparare quello sguardo». Lo sguardo di don Giussani, lo sguardo di Dio, che ama quel che c’è perché c’è, non perde tempo a lamentarsi di quel che non c’è. Lo sguardo di una mamma, che è quello che assomiglia di più a quello di Dio, e ama il suo bimbo perché c’è, così com’è. Fino a che può perfino accadere il miracolo che quel pezzetto di cervello arrivi a dire: «I love you».







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