ABORTO/ Papa Francesco, lo “scandalo” del perdono di Dio

- Francesco Braschi

Ieri Francesco ha precisato l'indulgenza che si potrà ottenere in occasione del prossimo Giubileo. Ai sacerdoti sarà concesso perdonare l'aborto, revocando la scomunica. FRANCESCO BRASCHI

papafrancesco_rossoppianoR439 Papa Francesco (Infophoto)

“… la celebrazione dell’Anno Santo sia per tutti i credenti un vero momento di incontro con la misericordia di Dio. È mio desiderio, infatti, che il Giubileo sia esperienza viva della vicinanza del Padre, quasi a voler toccare con mano la sua tenerezza, perché la fede di ogni credente si rinvigorisca e così la testimonianza diventi sempre più efficace“. 

Queste parole, contenute nella lettera a mons. Rino Fisichella con la quale papa Francesco ha concesso e precisato l’indulgenza che si potrà ottenere in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia, ci permettono di rinnovare con maggiore attesa e desiderio il cammino verso l’8 dicembre, giorno in cui si aprirà questo “anno di Grazia del Signore”, per usare l’espressione di Isaia ripresa da Gesù nel suo discorso alla sinagoga di Nazaret (cf Lc 4,19). E, nello stesso tempo, ci aiutano a cogliere quale sia, nell’intenzione del papa, l’esperienza che questo tempo privilegiato vuole favorire in ciascun credente: quella di un incontro personale con quel Padre che è ricco di grazia e di misericordia, che nel Figlio si fa vicino ad ogni uomo per donargli tenerezza e perdono.

Questa esperienza di misericordia, ci dice il papa, è innanzitutto per ogni credente. E si mostra come la condizione necessaria perché la fede si rinvigorisca e la testimonianza diventi sempre più efficace. Non penso che sia possibile sottovalutare queste parole. L’esperienza della misericordia ricevuta, infatti, precede, suscita e — possiamo affermare — norma la fede, dettando il metodo della testimonianza. Siamo così stimolati — e, in certo modo, provocati — ad accogliere innanzitutto per noi credenti l’invito a riscoprire e riconoscere la misericordia di Dio per noi, non semplicemente nel senso di un invito all’umiltà che non si può rifiutare (chi potrebbe negare di aver bisogno della misericordia divina?), ma che potrebbe essere vissuto solo moralisticamente, come una sorta di dovere da compiere; bensì come il ritorno alle sorgenti della fede come avvenimento, nello stesso modo e secondo la stessa dinamica che accadde al popolo di Israele e ai primi cristiani. 

Se andiamo infatti alle radici bibliche del giubileo, troviamo che all’origine di questa così poco compresa istituzione del popolo d’Israele — con le sue prescrizioni relative alla fine della schiavitù e alla restituzione della terra — sta nel rinnovarsi dell’esperienza da cui prese avvio l’Esodo: e cioè il fatto che Dio stesso avesse udito il grido di un popolo che si era praticamente dimenticato di Lui, che aveva smesso di credere nella promessa fatta ad Abramo, e che quindi aveva perso la coscienza stessa della propria identità. 

Israele scoprì il riaccadere dell’Alleanza, voluta da Dio innanzitutto come offerta unilaterale di una salvezza ben più grande di ogni immaginazione, connessa inscindibilmente a un’impensabile opportunità di crescita nella conoscenza e nella maturazione di ogni Israelita. Ed era chiaro a tutti quanto tale salvezza fosse gratuita, immotivata, immeritata, fino ad apparire perfino “ingiusta”, nella totalità di “impegno” di un Dio che si faceva vicino come mai alcun popolo aveva potuto sperimentare.

Sapere e ricordare di essere generato dall’amore creante di un Altro, che come con Abramo e con Mosé si rimette sulla via dell’incontro con ogni uomo: ecco il significato ultimo del giubileo dell’Antico Testamento.

Ma anche per i primi cristiani fu così. Infatti, sebbene le radici storiche dell’attuale configurazione dell’anno santo vadano trovate nella bolla Antiquorum habet fide relatio di Bonifacio VIII (1300), qualcosa di assai simile all’evento che stiamo per celebrare era già diventato parte dell’esperienza storica della Chiesa antica, intorno all’anno 150. A quell’epoca, la penitenza postbattesimale (quello che per noi oggi è il Sacramento della Penitenza) era ancora considerata un evento eccezionale, e non mancavano i rigoristi secondo i quali quanti peccavano in modo grave (omicidio, adulterio, apostasia…) dopo aver ricevuto il grande perdono del Battesimo, potevano solo essere esclusi dalla comunione ecclesiale, perché avevano mostrato di disprezzare il dono di salvezza che avevano ricevuto e che era costato la Croce di Cristo. Nello stesso tempo, però, l’esperienza quotidiana mostrava il pentimento sincero e il desiderio di riconciliazione di tanti che avevano peccato, e ci si domandava se fosse davvero conforme alla volontà di Cristo che costoro restassero senza possibilità di essere riaccolti nella compagine ecclesiale. Proprio in questo frangente avvenne qualcosa di inatteso, testimoniatoci da uno degli scritti più antichi della Chiesa di Roma, il Pastore di Erma. Erma, un profeta, ebbe una visione nella quale un angelo in forma di pastore gli annunciava che Dio stesso voleva un tempo nel quale fosse annunciata la possibilità di una seconda penitenza, con queste parole: “per coloro che furono chiamati alla fede in passato, e non negli ultimi giorni, il Signore ha stabilito una penitenza, perché Egli, che conosce i cuori e tutto prevede, ha compreso la debolezza umana e l’astuzia del demonio, le sue losche macchinazioni contro gli uomini. E così il Signore, che è misericordioso, ha avuto pietà della Sua creatura, e ha stabilito questa penitenza”. Anche da questo libro, così venerabile da essere stato talvolta considerato come appartenente al Nuovo Testamento, prende origine un tratto caratteristico della Chiesa di Roma: essersi sempre distinta per una particolare capacità di accoglienza e di riconciliazione verso i peccatori. 

È da questa radice buona e consolante che promanano anche le regole dettate da Papa Francesco in occasione dell’anno santo, tra cui in particolare la possibilità che ciascun sacerdote — e non solo quelli che sono esplicitamente delegati a questo dal vescovo locale — assolva dalla scomunica collegata al delitto di aborto. Lo scopo, infatti, è che chiunque abbia il desiderio di essere riconciliato con Dio — ma anche con la propria storia e la propria vita, sovente segnate da ferite profonde e da periodi di lontananza dalla misericordia o di oblio della presenza del Signore, così come era capitato al popolo schiavo in Egitto — si scopra preceduto dalla volontà di Dio di riconciliarsi con lui. Nessuna acquiescenza al peccato, o volontà di sminuire la portata di delitti gravi come la soppressione di una vita nascente, ma semplicemente — “scandalosamente”, come “scandalosa” appare spesso al nostro cuore miope la misericordia di Dio — la decisione di obbedire alla volontà del Signore. Una volontà identica a quella che ancora Erma ci descrive diciannove secoli fa con queste parole: “Va’, e di’ a tutti che facciano penitenza, e vivranno a Dio; poiché il Signore, avuta misericordia, mandò me per dare a tutti la penitenza, anche se alcuni a causa delle loro opere non ne sono degni. Ma, essendo il Signore magnanimo, vuole che la chiamata, fatta per mezzo del Figlio Suo, sia salva”.

Ancora una volta, per noi, si pone la possibilità di accogliere una misericordia che riaccade e riafferma la “gelosia” di Dio per noi, suoi figli. Un sentimento più forte della nostra disattenzione e malevolenza, e anche più tenace di tutte le nostre riduzioni. Tanto da far dire a sant’Ambrogio, due secoli dopo Erma, che per Dio “misericordia ipsa iustitia est“, ovvero che la giustizia si identifica con la misericordia. E che nessuno può impedire a Dio di voler continuare fino all’ultimo, mediante il Suo Figlio, a ripetere ad ogni essere umano la chiamata a vivere di questa misericordia.





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