BIOTESTAMENTO/ Legge sulle Dat, la trappola del suicidio medicalmente assistito

- Roberto Colombo

Nel dibattito riguardante la legge sulle Dat (biotestamento) si travisano la natura e le conseguenze di quanto disposto dal testo della legge. Primo di tre articoli. ROBERTO COLOMBO

senato_aula_voto_fiducia_lapresse_2016 L'Aula del Senato (LaPresse)

Caro direttore,
seguendo in questi giorni la vicenda del disegno di legge “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” (Dat) in discussione al Senato, tre cose mi addolorano (e, al medesimo tempo, mi “in-dignano”; secondo l’etimo, mi “feriscono nella dignità” umana che ci accomuna) come cittadino italiano, come cattolico e come docente di una facoltà di medicina e chirurgia del nostro Paese che prepara clinici laureati e specializzati: (1) il travisamento pubblico della natura e delle conseguenze di quanto disposto dal testo della legge in via di approvazione, (2) l’uso strumentale delle recenti parole del Santo Padre Francesco in riferimento alla cura dei malati gravi e dei morenti, e (3) il gravosissimo onere per la scienza e la coscienza del medico di farsi carico, negli stessi luoghi della cura clinica, di azioni che concorrono formalmente e materialmente alla realizzazione di un suicidio intenzionale medicalmente assistito.

1. Agli occhi della pubblica opinione (in larghissima maggioranza persone “non addette ai lavori”, con conoscenze nulle o insufficienti rispetto alla complessità scientifica, biotecnologica, medica e psicologica delle condizioni in cui versano i pazienti sottoposti a cure intensive o sub-intensive, stabilizzati o con criticità ricorrenti e/o ingravescenti; e, a motivo di queste loro non conoscenze, particolarmente “vulnerabili”, esposte al rischio di essere “manipolate” attraverso una informazione parziale o scorretta) la legge sulle Dat viene presentata come semplice e sola garanzia (o diritto) per il cittadino di non essere sottoposto ad alcun “accanimento terapeutico” nel corso di un suo ricovero ospedaliero. 

Questa rappresentazione di “puro strumento giuridico per arginare il male” dell'”accanimento terapeutico” non corrisponde fedelmente a tutto quanto è contenuto nel disposto dell’articolato di legge. Intendiamoci: certamente, la questione del cosiddetto “accanimento terapeutico” (distanasia) è serissima e deve essere affrontata con norme cliniche, deontologiche e medico-legali chiare, puntuali ed efficaci. Anche papa Francesco, nel messaggio del 7 novembre in occasione di un convegno regionale della Associazione Medica Mondiale tenutosi in Vaticano, lo ha ricordato, e il magistero della Chiesa (da Pio XII sino ai giorni nostri) ha deplorato le pratiche mediche che scadono in un “accanimento terapeutico”, che è sempre contrario al bene e alla dignità del malato.

In cosa consiste? In un trattamento (atto diagnostico, terapeutico, analgesico, riabilitativo, ventilatorio, nutrizionale o idratativo) sproporzionato — e, per ciò stesso, inappropriato, non dovuto — rispetto all’effetto per il quale il trattamento stesso è clinicamente indicato. Per esempio, la ventilazione meccanica ha la sua ragione d’essere applicata quando, assicurando un adeguato volume di gas ai polmoni, favorisce attraverso la perfusione ematica l’ossigenazione dei tessuti, il metabolismo aerobico, l’equilibrio acido-base e la funzionalità degli organi. Se la fisiologia di un paziente è a tal punto compromessa da non beneficiare più della ventilazione, questa diventa “futile” (secondo il concetto clinico di futility adottato dalla medicina) e può arrecare danno anziché o più che beneficio. La ventilazione andrà sospesa o non iniziata in qualunque paziente per il quale essa risulta un trattamento sproporzionato in tal senso, sia esso un bambino, un giovane o un anziano. Simili considerazioni valgono per ogni terapia medica, chirurgica o radiologica (per esempio la chemioterapia o la radioterapia nel caso di un tumore in stadio avanzato e diffuso che non risponde ad esse), ma anche per l’idratazione e la nutrizione somministrate per via enterale o parenterale: queste ultime sono doverose nella misura (la sola giusta clinicamente e moralmente, e quindi obbligatoria) in cui concorrono effettivamente al mantenimento dell’omeostasi idrico-salina, al fabbisogno energetico e al ricambio plastico apportando fluidi e molecole indispensabili per la fisiologia umana. Ma se gli organi e i tessuti del paziente deputati all’assorbimento o all’utilizzo di queste sostanze non sono più in grado di farlo efficacemente, esse non sono più di giovamento al malato ed il loro accumulo nel corpo può provocare lesioni e sofferenze. In tal caso — e solo in esso — anche la nutrizione e/o l’idratazione andrà interrotta.

Questo è ciò che la “buona pratica clinica” chiede e anche la Chiesa insegna (si veda, per esempio, la risposta della Congregazione per la Dottrina della Fede del 2007 al quesito sulla somministrazione di alimenti e di fluidi ai pazienti in stato vegetativo — con l’allegata nota esplicativa — la nuova Carta degli operatori sanitari pubblicata dalla Santa Sede nel 2016). Purtroppo, per motivi non legati al bene della persona malata o morente, non sempre si rinuncia ad un “accanimento terapeutico”, cioè a trattamenti sproporzionati, futili. Talune “ostinazioni” di certi medici nel non riconoscere il limite clinico e umano di fronte al tramonto della vita, qualche inopportuna pressione dei congiunti perché si faccia “tutto il possibile che si può fare” (anche ciò che è clinicamente irragionevole) per prolungare la vita del malato ormai irrimediabilmente avviato verso la morte, il timore dei sanitari di venire accusati (anche in sede giudiziaria) di non essersi adoperati per “strappare alla morte” un paziente (la cosiddetta “medicina difensiva”), le forme non eticamente corrette di osservazioni o sperimentazioni cliniche di nuovi o discussi interventi e manovre sul corpo del malato, ed altre motivazioni posso aver indotto e tuttora indurre a praticare forme di “accanimento terapeutico”. Se così è, giusto e urgente appare un intervento legislativo che ponga fine a questi abusi.

Ma nel testo del disegno di legge calendarizzato al Senato tutto questo si trova solo in tre righe (di colonna di mezzo foglio) del comma 2 dell’articolo 2, ove si dice che “il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati”. Sole 20 parole su 2.209 (0,9 per cento) del testo. Opportune, certo. Ben calibrate e ineccepibili. E nel resto del dispositivo cosa si legge?

A parte il cappello sul consenso informato racchiuso nei primi quattro commi dell’articolo 1, il corpo della legge ruota attorno all’obbligo imposto ai medici non solo di riconoscere come fondamento della relazione di cura con il paziente il principio di “autodeterminazione” di quest’ultimo (art. 1), ma anche di fare di esso il secondo termine del rapporto di proporzionalità che deve guidare l’attivazione, la continuazione o la sospensione di un intervento sanitario. Così, la ratio della proporzionalità (o della appropriatezza, come talvolta viene chiamata) di ogni atto medico — che distingue un intervento doveroso clinicamente ed eticamente da un “accanimento terapeutico”, riprovevole clinicamente ed eticamente — scivola (quasi impercettibilmente) dal nesso intrinseco alla medicina, che mette in relazione l’intervento del medico con il suo effetto inteso e atteso sul corpo del paziente, alla relazione estrinseca tra l’azione del primo e il volere del secondo, anche quando quest’ultimo sortisce un effetto che la medicina — in tutte le sue declinazioni e specialità — non persegue (almeno dichiaratamente) né come mezzo né come fine: la cessazione della vita del malato anzitempo rispetto al decorso assistito della sua malattia. Come recitava il testo dello stesso disegno di legge quando giunse alla discussione nella Camera dei deputati, la medicina “tutela la vita e la salute dell’individuo”. L’espressione venne cancellata per sostituire al dovere professionale e sociale della medicina di contrastare con interventi proporzionati la malattia e la morte l’esercizio di un diritto del paziente (cui egli può sempre rinunciare) alla propria salute e alla propria vita (cosa diversa da un diritto a vedere sempre “curata” la propria salute e la propria vita, da cui nasce l’obbligazione al “prendersi cura” sempre dei pazienti da parte dei medici e del sistema sanitario).

Su questo delicato e decisivo punto — l’autodeterminazione rispetto alla vita e alla salute che si sostituisce all’effetto proporzionato di una cura nel determinarne la sua qualità clinica ed etica — e sulle sue conseguenze rispetto alla mission della professione medica e alla perception che di essa hanno i cittadini ritornerò successivamente. Qui è sufficiente per concludere che l’immagine che viene riproposta in questi giorni di una legge necessaria, urgente, per porre fine a quella deplorevole malpractice che è l'”accanimento terapeutico” e basta, non corrisponde affatto né al principio né alla lettera del testo in esame al Senato. Cui si aggiunge, nelle parole di alcuni, addirittura l’affermazione che a sollecitarla sarebbe lo stesso papa Francesco, attraverso un suo recente intervento.

(1 – continua)





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