IMPRENDITORE MUORE E LASCIA LA DITTA AI DIPENDENTI/ Contro il cuore non c’è crisi che tenga

- Maurizio Vitali

A Morigliano (Udine) ha riaperto l'azienda rimasta senza titolare nel luglio scorso, quando Andrea Comand è morto di cancro. Ha lasciato le sue quote ai dipendenti. MAURIZIO VITALI

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A luglio era morto il titolare. A Ferragosto l’azienda s’era fermata. Ieri ha ripreso l’attività. Nuovi titolari sono i cinque dipendenti cui il padrone ha regalato, prima del decesso, le sue quote. E’ successo a Morigliano, paesotto in provincia di Udine, 5mila abitanti, la più parte agricoltori, ma ci sono anche artigiani e piccoli imprenditori. Ha un campanile altissimo, 113 metri, di cemento armato; ed ha dato i natali a Pascutti, mitica ala del Bologna e della nazionale anni 60.  

Tenace terra friulana, abitata da una stirpe che, per dire, nel terremoto del 1976 è passata dalle tende ai mattoni con olio di gomito, responsabilità personale e spirito di comunità, risparmiandoci piagnistei e mugugni sulle colpe degli altri, del destino, dello Stato o del vattelapesca. Ce ne fossero. 

Ci sono, a dire il vero. Per esempio, appunto Andrea Comand: aveva messo su sei anni fa un’officina specializzata per le auto rapidamente affermatasi per la professionalità del personale e la qualità delle prestazioni, la Garage srl. Poi, quest’anno, un tumore l’ha portato alla morte, a nemmeno quarant’anni. Prima però ha dettato le sue ultime volontà, appunto di far continuare l’impresa ai suoi dipendenti.  “Il suo desiderio — spiega la famiglia di Andrea — era che l’azienda potesse proseguire il cammino con quelli che sono stati i suoi più stretti collaboratori”. Persone che Andrea ha assunto, ma anche coinvolto, fatto crescere, e a cui ha voluto bene. Come una famiglia”. Adesso questi suoi cinque devono riguadagnarsi (per riecheggiare il titolo dell’ultimo Meeting di Rimini) l’eredità che hanno ricevuto da Andrea per possederla.

Il passaggio generazionale è avvenuto come da una paternità a una figliolanza, o da amico ad amici. Ed il primo step è segnato dalla gratitudine. Un buon inizio. Il resto sarà lavoro duro per un’ulteriore maturazione.

Merita leggere la lettera che i cinque hanno scritto: “Ci ha insegnato a camminare da soli perché non era una persona gelosa del suo sapere ma orgogliosa di far crescere le persone che aveva scelto alle sue dipendenze. Siamo stati sempre coinvolti, partecipi, spronati al fine di raggiungere gli obiettivi aziendali: sempre tutti insieme, come insieme abbiamo affrontato il suo periodo di malattia. Come lui è stato vicino a noi, noi siamo stati con lui… con il cuore prima di tutto… il nostro motto è stato sempre quello: ‘Non lasciamolo solo ma stiamogli accanto come una famiglia’. Lo abbiamo fatto, lo faremo restando una famiglia unita e facendo vivere il sogno di Andrea: per ringraziarlo di ciò che ci ha dato, ma soprattutto per fargli vedere che grande maestro è stato donandoci le sue quote insieme alla sua fiducia”.

Hanno scritto loro, hanno usato le parole maestro e fiducia per descrivere il rapporto e la consegna; non c’è molto da aggiungere. Viene solo in mente il caso del patron della Dioma di Vicenza, Leonardo Martini, morto a 72 anni senza figli, che decise anch’egli che gli eredi dovessero essere i suoi 25 operai: “Non volevo lasciare la fabbrica a degli estranei”.

Vicende come quelle di Martini o Comand spiccano fra tutte. Non sono solo un lodevole gesto di generosità da ammirare, ma una provocazione culturale. Mostrano che l’azienda può e deve essere comunità di uomini al lavoro, dove ognuno gioca il proprio io nell’impresa comune; non è, non deve essere, né può essere tout court considerata come uno dei tanti ring dello scontro generale tra capitale e lavoro (secondo la vecchia visione marxista e catto-comunista) né come pura fonte di danaro, cioè come “equivalente universale astratto”, alla maniera del turbocapitalismo d’accatto. 

Al contrario nella sostanza dell’intrapresa conta quello che si fa, chi lo fa, la qualità della relazione tra gli uomini del lavoro (Wojtyla), la possibilità di crescita personale e professionale, il gusto del lavoro ben fatto, il valore sociale. Non se ne può più di pseudo-imprenditori, per fortuna una minoranza, che comprano un bar e lo gestiscono al peggio per fuggire tempo due anni con la cassa (e la cassiera). Non se ne può più di super-manager che passeggiano coi tacchi a spillo su grandi aziende o banche per andarsene tempo due anni col bottino. Non se ne poteva più neanche di quelli che hanno sempre visto l’impresa, grande media o piccola, come una cosa cattiva, un pericolo o una minaccia. Dico poteva, perché la lunga crisi ha reso certi vetero-palati meno fini e schizzinosi.

Tipi come Andrea Comand o Leo Martini ci mostrano l’altra faccia della luna, e ci convincono che è la faccia, e la via, bella buona e vera. Crisi o non crisi.





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