CRISI/ Manent: la sfida dell’identità contro il mito dell’Europa dei banchieri

- int. Pierre Manent

Il filosofo della politica Pierre Manent, discepolo di Raymond Aron e direttore del centro studi a lui intitolato, descrive in questa intervista a ilsussidiario.net i limiti del modello economico che ha portato all’attuale situazione di crisi. La via d’uscita può arrivare solo dalla riscoperta del fatto religioso come fondamento su cui ricostruire le appartenenze nazionali

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Con una battuta “culturale” ad effetto il ministro dell’Economia Giulio Tremonti disse, pochi mesi fa, che per la soluzione dell’attuale crisi «non ci vorrebbe una nuova Bretton Woods, bensì una nuova pace di Westfalia». Il problema cioè, se abbiamo ben capito il senso della frase, non è solo economico, ma affonda le proprie radici in quella che è l’origine stessa degli equilibri fra gli stati moderni. Un problema politico e, soprattutto, culturale.

È questa la prospettiva su cui si colloca la riflessione di Pierre Manent. Filosofo della politica, discepolo di Raymond Aron e direttore del centro studi a lui intitolato, Manent, da vero e proprio intellettuale a tutto campo, lancia una sfida radicale all’Europa moderna: dalla crisi attuale si esce «solo recuperando una dimensione nazionale, dentro la quale si giochi la responsabilità, anche economica, di ciascuno». E tale recupero non può che avvenire «sul fondamento dell’appartenenza religiosa», l’unica base che abbiamo per trovare un «linguaggio comune europeo». È finito il tempo in cui ci si può, e quasi ci si deve sentire (secondo l’astrattezza dell’illuminismo cosmopolita) “cittadini del mondo”: si è cittadini di una particolare città, e da lì si parte per il mondo.

Il crollo di un mondo “alieno”

Extraterritorialità: è questa la parola chiave che Manent utilizza per descrivere il modello economico che ora si sta sgretolando. «Un modello molto sistematico e ideologico, rivelatosi del tutto limitato e insufficiente», definibile come «ultraliberalismo di stampo anglosassone; o, più semplicemente, il modello di riferimento del settimanale “The Economist”. A questo schema tutto il mondo si è adeguato, in una sorta di alienazione generale». Lo spartiacque cronologico, l’inizio cioè di questo nuovo ordine mondiale economico-finanziario, lo si può ravvisare nel “big bang” verificatosi alla Borsa di Londra a metà degli anni Ottanta: la grande liberalizzazione che rese possibili le contrattazioni su scala mondiale. «Prima di allora – spiega Manent – ciascun attore economico aveva una particolare responsabilità all’interno del quadro politico nazionale. In Francia ad esempio abbiamo visto in atto una forte solidarietà tra banchieri, per cui se uno falliva gli altri si sentivano in dovere di andargli incontro. Ma era così anche negli Stati Uniti. Con il “big bang”, invece, Londra è diventata come una sorta di portaerei, dotata di una extraterritorialità finanziaria, all’interno della quale gli attori economici mondiali si sono lanciati in operazioni sempre più stravaganti».

Che cosa ha permesso che questa stravaganza potesse essere lasciata senza freni, libera di esprimersi nei modi più bizzarri, e alla fine pesantemente rovinosi? «A parte i discorsi sull’avidità dei finanzieri» (che è motivo reale, ma non sufficiente a spiegare la piega mondiale dell’attuale situazione), «il punto essenziale è stata la scomparsa di un quadro nazionale, con tutto l’intreccio di responsabilità che esso implica. La comunità finanziaria si è tramutata in un pianeta parallelo, senza rapporti con le nazioni, comprese quella inglese e statunitense».

La caduta di un modello cattivo non può che essere salutata come una buona notizia, sebbene al momento non si vedano che le macerie del passato. Come ricostruire, trasformando la crisi in un’opportunità? «Quel che vediamo ora è che i vari stati, compresa l’America, vanno verso politiche protezionistiche, e al proprio interno ciascuna nazione mette in campo reazioni diverse. In questo atteggiamento c’è qualcosa che potrebbe avere conseguenze molto negative, se tutto si trasforma semplicemente in una dannosa concorrenza fra protezionismi; ma al contrario può essere un atteggiamento positivo, se ciascun paese si sforza invece di ritrovare un modo a lui consono di governarsi. Nell’ultimo periodo, infatti, siamo stati pesantemente inquinati da una dottrina fallace secondo la quale non ci sarebbe che un solo modo di fare le cose: un solo modo di reggere l’economia, un solo modo di tenere i conti dello stato, un solo modo di organizzare le banche etc. Ritengo che si debba recuperare un certo senso della diversità, e che ciascun paese abbia la possibilità di ritrovare le risorse che gli sono proprie».

Una nuova appartenenza: la sfida dell’Europa cristiana

«Quello che non possiamo più permetterci è pensare di essere uomini senza territorio, senza nazionalità, senza appartenenza». Attenzione, però: si vuole forse tornare agli stati nazionali, con le relative guerre sfociate infine negli orrori del Novecento? «Di certo non si può tornare al passato» precisa subito Manent: «questo non lo si può mai fare in assoluto; e soprattutto sarebbe sbagliato in questo senso, visto che nessuno vuole ritornare alle guerre del Ventesimo secolo. Però è necessario recuperare quel quadro nazionale dentro cui si gioca la responsabilità dei singoli. E questo non può avvenire che con la riscoperta di appartenenze nuove, che non saranno altro che le antiche modificate nelle nuove circostanze». 

Un percorso culturale complesso, in cui l’Europa può e deve giocare un ruolo centrale: «non l’Europa delle istituzioni, l’Europa astratta già bocciata dai referendum sulla carta costituzionale» puntualizza Manent, «perché quella non è altro che un’inutile riproposizione della macchina mondializzatrice. Ciò che serve è l’Europa come referente spirituale». Non che con questo Manent intenda sconfessare l’ipotesi di un’unità anche politica a livello europeo. Quella è una prospettiva tuttora valida, ma che può trovare all’interno delle nazioni stesse la propria ragion d’essere: «i diversi soggetti della realtà europea devono ritrovare il senso della responsabilità nazionale, e sulla base di questo fondamento costruire le proprie politiche. Al tempo stesso ci deve essere l’impegno di costruire politiche comuni a livello europeo: ma queste verranno ricavate dagli elementi comuni ai vari stati, e non saranno le politiche di un ente esterno, di un’istituzione astratta, svincolata dagli stati stessi». Una politica comune «delle nazioni europee», e non astrattamente una politica «dell’Europa».

Su quale base allora ricostruire queste nuove appartenenze nazionali? Manent non ha dubbi, e spiega in che modo l’Europa deve tornare ad essere “referente spirituale”: «le nazioni europee non possono più elaborare le loro politiche senza accettare di essere nazioni di impronta cristiana; non possono fare come se così non fosse. Questo è il punto che determina sia il rapporto con gli Stati Uniti (che condivide questa impronta), sia con Israele, sia con il mondo musulmano».

Un fondamento valido per tutti

In questa ricostruzione di un’appartenenza nuova, come fondamento delle politiche nazionali e delle politiche comuni europee, il fattore religioso «gioca dunque un ruolo centrale per orientare il dibattito pubblico». Non si ricostruiscono cioè le nazioni europee se non a partire da questo elemento imprescindibile, e da più parti, magari anche inconsapevolmente, riconosciuto. «Senza questo fondamento l’Europa non può avere un linguaggio con cui parlare con il mondo. Prendiamo ad esempio il caso importantissimo dei rapporti con Israele: su quali basi gli stati europei possono trovare un linguaggio chiaro per comunicare con lo stato ebraico, se non sul fondamento religioso?». Un linguaggio chiaro che deve essere da una parte riscoperto, e dall’altra parte accettato: «solo all’interno di questa chiarezza si possono costruire reciproche richieste».

Resta però da capire come possa conciliarsi questa impostazione con la condizione di generale scristianizzazione dell’Europa: può l’Europa laica accettare di riscoprire la propria identità sul fondamento religioso? «Come non bisogna tornare agli stati nazionali della modernità, così non si può pensare di tornare all’Europa medioevale. Il punto è un altro: bisogna riconoscere che nell’orientamento collettivo dell’Europa vi è un riferimento religioso, al quale si può aderire o meno, ma che fa parte degli elementi costitutivi del nostro mondo. Senza il riconoscimento di questa appartenenza – a prescindere, ripeto, dall’adesione personale al fatto religioso – non avremo mai quel linguaggio comune che solo ci può permettere di ricostruire un tessuto nazionale, e sulla base di questo entrare in relazione col mondo intero».

(Rossano Salini)







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