LETTERATURA/ Palomar, quel cattivo maestro di Italo Calvino che combatte lo stupore

- Laura Cioni

LAURA CIONI commenta uno degli ultimi romanzi dello scrittore, Palomar. La storia di un uomo, emblema della curiosità umana, che si imbatte innumerevoli volte in una realtà vuota di significato lasciando spazio a un’inesorabile spirale di pessimismo

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Calvino dà a Palomar, emblema della curiosità umana, il nome del famoso osservatorio astronomico californiano. Giustamente è stato scritto di questo libro: «Fermati Calvino, di pessimismo si può morire». L’autore riassume la sua storia in due frasi: «un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non è ancora arrivato».

Qualche esempio della corrosione delle certezze di cui intere scolaresche si sono nutrite. Palomar guarda le onde del mare «e a ogni momento crede d’esser riuscito a vedere tutto quel che poteva vedere dal suo punto d’osservazione, ma poi salta fuori sempre qualcosa di cui non aveva tenuto conto». Bello, la realtà è più grande, ma Palomar non regge allo scacco e «s’allontana lungo la spiaggia, coi nervi tesi com’era arrivato e ancor più insicuro di tutto».

Ascoltando il fischio dei merli, alternato alle loro pause, Palomar «spera sempre che il silenzio contenga qualcosa di più di quello che il linguaggio può dire. Ma se il linguaggio fosse davvero il punto d’arrivo a cui tende tutto ciò che esiste? O se tutto ciò che esiste fosse linguaggio, già dal principio dei tempi?» Bello, ma ecco la conclusione: «Continuano a fischiare e a interrogarsi perplessi, lui e i merli».

Palomar volge il suo occhio indagatore al cielo, ma si accorge «che la piccolezza del nostro mondo rispetto alle distanze sconfinate non risulta direttamente». Più scaltro di Cicerone, di Dante e di quanti hanno percorso lo stesso tragitto dalla terra alla volta stellata, i suoi mezzi di osservazione più raffinati lo inducono a ritenere che, «se i corpi luminosi sono carichi d’incertezza, non resta che affidarsi al buio, alle regioni deserte del cielo. Cosa può esserci di più stabile del nulla? Eppure anche del nulla non si può esser sicuri al cento per cento».

 

Palomar gira il mondo e visita l’antica capitale dei Toltechi, alle prese con le indecifrabili costruzioni messicane: «Se oltre la faccia che presentano a noi hanno una faccia nascosta, a noi non è dato di saperlo. Il rifiuto di comprendere più di quello che queste pietre ci mostrano è forse il solo modo possibile per dimostrare rispetto del loro segreto; tentare d’indovinare è presunzione, tradimento di quel vero significato perduto».

 

 

Palomar si chiede: «Ma come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l’io? Di chi sono gli occhi che guardano?» e considera la ragione come «una finestra che s’affaccia sul mondo». E poi va avanti: se l’occhio non vede altro che le cose come sono, come trovarne il significato? «Dalla muta distesa delle cose deve partire un segno, un richiamo, un ammicco: una cosa si stacca dalle altre con l’intenzione di significare qualcosa…che cosa? Se stessa, una cosa è contenta d’essere guardata dalle altre cose solo quando è convinta di significare se stessa e nient’altro, in mezzo alle cose che significano se stesse e nient’altro».

 

Assorto in questa verità, Palomar muore. Un cattivo maestro.





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