TONY BLAIR/ “Religione in ambito pubblico, secolarismo o laicità?”: il testo del discorso

- Tony Blair

L'ex primo ministro inglese TONY BLAIR è intervenuto a Milano nell'ambito del ciclo di seminari della Tony Blair Foundation e della Fondazione per la Sussidiarietà

blairtony_R400 Tony Blair, foto Ansa

Non ci sarà pace nel mondo se prima non si comprenderà il ruolo della religione. Questo è sconcertante per i leader politici e religiosi. I politici si sentono a disagio a discutere di religione (ricordate la frase “Noi non facciamo Dio!”). La religione non segue i sentieri già battuti a cui siamo abituati: la crisi finanziaria, le sfide per garantire la sicurezza, la salute, l’istruzione e il welfare. La religione ci conduce in un regno sconosciuto dove sospettiamo, giustamente, che si celino sgradevoli paludi di polemiche. I leader religiosi hanno opinioni politiche e spesso le esprimono con forza, ma lo fanno come uomini di fede spinti a parlare di politica, non come partecipanti a un dibattito sulla fede stessa. Tuttavia, nell’ultimo decennio, molti dei miti che mascheravano la religione sono stati spazzati via.

Per la maggior parte degli europei cresciuti negli anni Sessanta e Settanta c’era una sola equazione: se la società progredisce, la religione declina. Non è successo. Anzi, il numero delle persone che abbracciano una fede è aumentato e, per di più, è cresciuto proprio in in quelle nazioni che godono di grandi prospettive di sviluppo. Il raddoppio della popolazione del mondo arabo previsto per i prossimi 25-30 anni provocherà da solo un aumento sostanziale del numero di musulmani. Numeri a cui si deve poi aggiungere un altro dato sostanziale: l’alto tasso di natalità in Paesi come l’Indonesia (oggi ha due volte il tasso d’Italia e con una popolazione che è il triplo di quella dela Germania). L’America Latina sta invece vivendo un grande impulso al cristianesimo evangelico. E ogni anno qui in Italia milioni di persone si riuniscono per vedere e ascoltare il Santo Padre, che continua ad attirare migliaia di fedeli in tutto il mondo (anche nel Regno Unito), che fanno apparire piccolissime le folle radunate da qualsiasi uomo politico. Ci sono poi quelli che continuano a sostenere che, poiché la Rivoluzione Araba ha rovesciato regimi di lunga data e ha creato movimenti democratici, per i nuovi politici di questi Paesi la religione sarà in secondo piano. Questo però non si è verificato, come sta dimostrando la forte presenza della “Fratellanza Musulmana”.

La religione è fondamentale per queste società e nel prossimo futuro lo sarà sempre di più. In Medio Oriente, dove sono appena stato per la mia 73esima visita dalla fine del mio mandato, ho visto i pericoli nati dall’ignorare la dimensione religiosa del conflitto israelo-palestinese. Questa disputa non riguarda solo il territorio. Riguarda la cultura, la fede e il diverso punto di vista con cui si interpreta la narrazione storica sull’origine delle religioni. Crediamo davvero che la questione di Gerusalemme possa essere risolta senza discutere, per lo meno, il significato religioso che la città ha per tutte tre le fedi abramitiche? Comprendo la naturale inclinazione politica che porta a dire: “Si sa che non è veramente una questione religiosa ma una questione politica”, ma non è vero! A meno che, per motivi di nostra pura convenienza, non si decida di attribuire alle persone una motivazione diversa da quella che dicono di avere, che a mio avviso è un uno strano modo di interpretare la politica.

Questo è particolarmente vero se si considera lo spiacevole fatto che, a dieci anni dall’11 settembre, il virus del terrore basato sulla distorsione della dottrina dell’Islam, non ha ancora mostrato segni di cedimento. È ancora presente in Iraq e Afghanistan dove cerca di destabilizzare la lunga marcia verso la pace e la democrazia di questi Paesi. È un tema sempre attuale in nazioni come l’India, il Pakistan, la Nigeria, la Somalia, il Kenia e persino nel lontano stato della Filippine. Resta una minaccia per la nostra sicurezza per cui si sono spesi miliardi e ha provocato il cambiamento del nostro stile di vita. È una caratteristica degli attivisti del conflitto israelo-palestinese. E non sono solo le azioni del terrorismo che ci devono allarmare. È l’estremismo che promuove la persecuzione delle minoranze religiose, per esempio l’assassinio in Pakistan di alcuni politici che chiedevano di cambiare leggi blasfeme e, ancora peggio, il festeggiamento dei loro assassini da parte di un grande numero di civili. 

La sfida deve coinvolgere anche coloro che sono abituati a denunciare solo le persecuzioni dei cristiani, per esempio a causa delle leggi islamiche sulla blasfemia, mentre tacciono sulla persecuzione delle altre minoranza religiose. La grande maggioranza di credenti che soffrono per le restrizioni governative o per l’ostilità sociale in tutto il mondo è composta da cristiani e musulmani. È semplicemente un riflesso dei numeri che compongono la popolazione mondiale. Le statistiche recentemente realizzate dal Pew Research Centre in Medio Oriente e in Nord Africa indicano che in alcune aree i musulmani sono più perseguitati dei cristiani, spesso proprio da parte di altri musulmani come loro. Questa è, naturalmente, solo una parte di un problema molto più ampio. Lo stesso rapporto del Pew Research Center descrive questa situazione come un problema esacerbato proprio da alcuni degli Stati stessi.

Nel periodo dal 2006 al 2009, la statistica indica che il numero dei Paesi in cui le restrizioni governative e l’ostilità sono aumentate è raddoppiato rispetto al numero di quelli in cui la situazione è migliorata. E il fenomeno non accenna a diminuire. La sfida è molto più difficile quando non viene rispettata la dignità umana e viene negata la libertà di credo. Questo provoca un’oppressione generale dei credenti in numerosi Paesi dell’Asia centrale, nel sud del Caucaso e, naturalmente, nella Corea del Nord. Ciò significa che dobbiamo sostenere i musulmani a Gujarat, in India, i cristiani non ortodossi in Moldavia, i Bahai in Iran, gli Ahmadis in Pakistan, i cristiani in Nord Africa, gli Indù in Sri Lanka, gli sciiti in numerosi Paesi a maggioranza sunnita e in altre zone. Tutti hanno sofferto, in qualche modo, per diversi tipi di discriminazione, dalle barriere invisibili alle molestie, dalla persecuzione alla repressione sistematica. Oggi il punto più importante è: da ogni lato, in ogni quartiere, ovunque noi guardiamo e analizziamo, la religione è potente, motivante e determina la forza che forgia il mondo attorno a noi. Per alcuni, questa è la prova finale dell’iniquità della fede religiosa. La loro risposta è l’abbandono.

Come il Papa ha brillantemente sostenuto nel suo recente discorso sulla fede tenuto ad Assisi: la distorsione della religione e la pratica della violenza nei confronti di essa provocano un tipo diverso di aggressione: un secolarismo che vuole discreditare, persino distruggere, l’idea stessa di fede e la fede in Dio. Eppure anche questo è un sforzo inutile. Per milioni di persone, la fede non si misura in pregiudizio, intolleranza o violenza, ma in amore, compassione, nel desiderio e nell’impegno per costruire un mondo più giusto e umano. Questo – il vero volto della fede – è ciò che spinge la Chiesa a essere così attiva nel fornire assistenza sanitaria in Africa, salvando migliaia e migliaia di vite o porta l’Unione Superiore Maggiori d’Italia a combattere il terribile traffico di esseri umani. Questa è la fede nel suo scopo più alto: il disegno che Dio ha per noi. È il desiderio di raggiungere la realizzazione sia spirituale che materiale che porta le persone a professare la fede con fervore. E, nell’era della globalizzazione, in particolare sulla scia della crisi finanziaria, le porta a sostenere la forza civilizzatrice della fede nel mondo moderno. L’umanità senza fede sarebbe profondamente impoverita, anche se si progredisse materialmente.

La globalizzazione senza valori e senza il senso di equità e giustizia che questi portano, spesso derivanti proprio dalla fede in Dio, rischia di produrre lo stesso tipo di crisi a cui stiamo assistendo, le cui conseguenze potrebbero essere solo all’inizio. È arrivato quindi il momento di mettere da parte gli inganni: non è vero che la fede sta diminuendo, che la religione non è come la si descrive, che nel 21° secolo un dibattito politico può essere seriamente condotto senza discutere di religione. La religione va affrontata come una scienza sociale, come un affare internazionale e come un aspetto psicologico, non come semplice religione. Perché ciò avvenga, i credenti i laici, le religioni e i politici devono iniziare a comunicare. 

Perché, dal momento che la globalizzazione unisce e omologa il mondo on-line, grazie a internet o con le migrazioni, la necessità di trovare il modo di far coesistere pacificamente persone di fedi diverse diventa sempre più urgente. La giusta e benvenuta spinta democratica che sta attraversando il mondo aumenta l’urgenza. Abbiamo bisogno di una democrazia amica della religione e di una religione amica della democrazia. Dobbiamo analizzare e discutere le regole secondo cui le persone di fede devono partecipare al dibattito democratico. Io propongo una terza via. Quelli di noi ispirati dalla fede devono avere il diritto di pronunciarsi su questioni che ci riguardano, nel nome delle opinioni che derivano del credo religioso. Allo stesso tempo, però, la nostra voce non può predominare sul sistema democratico che funziona equamente per tutti, indipendentemente dalla fede o dal fatto che siamo o meno credenti.

A sua volta, questo dovrebbe portare a un dibattito fondamentale sulla natura della democrazia, un dibattito particolarmente critico poiché stiamo assistendo alla rivoluzione nei Paesi Arabi e del Nord Africa. Personalmente non credo che esista il concetto di democrazia cristiana o islamica. Posso riflettere sulle democrazie in alcuni Paesi a maggioranza islamica, come la Turchia, o a maggioranza cristiana, come l’Italia. Anche se le persone di fede cercano, o dovrebbero cercare, di armonizzare la loro visione politica, le loro convinzioni religiose e la loro tradizione, per me è difficile definire una democrazia in riferimento a una fede. L’essenza della democrazia sta nel suo essere pluralistica, nel trattare le persone di religioni diverse nello stesso modo e nel derivare le sue regole dalla volontà del popolo. È intrinsecamente laica, anche se radicata in culture profondamente religiose. È qui che una religione amica della democrazia ha veramente significato nel modo in cui la società è governata. Da questo punto nascono un insieme di caratteristiche della democrazia su cui dobbiamo insistere. La democrazia non è solo un sistema per votare a favore o contro il governo. Non è solo libertà di voto. È libertà dei mezzi di comunicazione, libertà di espressione, libertà di religione. È anche, dal mio punto di vista, l’indipendenza della magistratura, lo stato di diritto e persino la libertà del mercato, anche se con un intervento appropriato del governo e dei regolamenti.

In altre parole, è tanto una predisposizione mentale quanto un sistema tecnico per prendere decisioni. Questo atteggiamento ha una mentalità aperta: sul mondo, sugli altri, sulla diversità, sulla differenza. L’alternativa è una mentalità chiusa, che vede la globalizzazione solo come una minaccia, la differenza come un pericolo e la diversità come una debolezza. La mente chiusa si serve della democrazia, ma non crede in essa. Il rispetto dei diritti delle minoranze e un sano pluralismo religioso sono aspetti fondamentali della democrazia e sono elementi chiave di una mentalità aperta. La democrazia ha una lista di responsabilità governative: offre la possibilità elettorale di sbarazzarsi di un governo perché la maggioranza degli elettori è contraria alle sue politiche e garantisce il rispetto dei diritti dei cittadini. Uno stato ha bisogno di adempiere a queste responsabilità se vuole sostenere di essere democratico.

A me sembra che il pluralismo politico e quello religioso procedano di pari passo. Nel caso della mia Chiesa la lotta si è svolta quando ero molto giovane, appena prima e durante il Concilio Vaticano II. Idee filosofiche obsolete sono state abbandonate ed è stato adottato il linguaggio dei diritti dell’uomo. Quindi c’è un precedente per i numerosi leader musulmani profondamente preoccupati per l’impoverimento intellettuale della loro fede e desiderosi, nel contesto della primavera araba, di rendere di nuovo la giustizia il vero scopo di un governo. Le sfide sono quindi molto chiare. La religione conta. La fede motiva e spinge. Quindi, se la democrazia può funzionare efficacemente, anche la religione deve avere una mentalità aperta, non chiusa. Altrimenti comincia a strappare la democrazia dai suoi ormeggi e mette le basi per un conflitto fra le persone di fede diversa e fra religiosi e laici. Le menti che strumentalizzano la religione per giustificare la violenza e il pregiudizio sono menti chiuse. Queste considerano le persone che non hanno il loro stesso credo infedeli, emarginati, persino coloro che hanno la stessa fede ma sono diversi. Contro questi atteggiamenti di chiusura mentale si deve opporre un’idea di fede aperta agli altri: io ho la mia fede e la mantengo ma sono pronto ad accettare che tu abbia la tua e che tu abbia il mio stesso diritto di praticarla e di credere in essa. 

Questo è il solo modo in cui il mondo può funzionare e in cui la democrazia può mettere radici. Senza questo atteggiamento mentale, la religione diventa fonte di conflitti. Dal momento che la globalizzazione avvicina il mondo e lo rende più piccolo, le persone di fede diversa vivono per forza fianco a fianco. La pace del mondo dipende dal mondo in cui convivono: se si spintonano a vicenda fra attriti e tensioni o se vanno d’accordo, imparando gli uni dagli altri. Traiamo ora le conclusioni. Questo atteggiamento mentale non può essere inculcato solamente dai politici. Deve essere sostenuto dalle persone di fede. Se si chiede ai credenti di essere aperti agli altri ma questa richiesta non è legata ai principi della fede si corre un rischio molto semplice: essi penseranno di essere chiamati a dover scegliere tra la fede e la politica. Hanno bisogno di sapere che un atteggiamento aperto verso gli altri è una “cosa buona” non solo per la politica ma che è pienamente coerente anche con la loro fede, che fede e ragione sono allineate.

Ecco perché questo compito non può essere lasciato solo alla politica. Deve essere intrapreso, almeno in parte, anche dalle persone di fede che devono fornire: a) una piattaforma di comprensione interreligiosa e di rispetto; b) la giustificazione teologica e citata nelle Sacre Scritture di una mentalità aperta. È qui che la progettazione e il radicamento delle misure di protezione costituzionali non sono sufficienti. Anche con tutta la buona volontà, queste resteranno solo aspirazioni sulla carta se i leader religiosi e politici non educheranno il loro elettorato ai diritti delle minoranze religiose. I leader devono riflettere sul concetto di “dignità di tutti i membri della famiglia umana” già citata dalle Nazioni Unite nel 1948 e che sta alla base dell’odierna cultura dei diritti umani. È necessario un impegno per la dignità umana attraverso azioni concrete: la formazione di agenti di pubblica sicurezza che sostengano questi valori, l’insegnamento del rispetto e della comprensione per le persone di fede diversa già partire dalla scuola elementare, l’alfabetizzazione religiosa dei leader nazionali. Ciò rappresenta senza dubbio una grande sfida per i leader religiosi: devono trarre dalle loro tradizioni e dai loro testi sacri i valori e la visione necessari a creare una cultura della democrazia.

La ricerca delle verità che sta al centro delle religioni monoteiste e che le spinge inevitabilmente verso posizioni intransigenti e non negoziabili è una problematica reale. La questione chiave sta nell’interpretazione di questa ricerca; il continuo desiderio umano di affermare che Dio è dalla nostra parte, che noi abbiamo formato il Partito di Dio, che la nostra fragilità, crudeltà e disumanità saranno punite da Dio. L’arroganza dietro cui si cela il vero significato della blasfemia. Questo è il motivo per cui ho iniziato la mia Fondazione. Senza la comprensione interreligiosa, l’atteggiamento chiuso ed esclusivista può occupare gratuitamente lo spazio religioso nella politica. Ma è anche il motivo per cui io e altri politici come me hanno bisogno di aiuto. Tutto ciò che ha che fare con la fede e con il suo effetto sul mondo geo-politico deve essere portato a un livello d’indagine e dibattito più alto e acuto. Deve essere palese, chiaro e di dominio pubblico.

Deve essere presente nelle nostre università e nelle nostre scuole, dove l’educazione al rispetto degli altri è cruciale, e nell’arena dello scambio politico. Arena in cui dobbiamo trattare la religione come tale e non come un sottoinsieme della politica. Infine, se tutto ciò accadesse, dal mio punto di vista ci sarebbero conseguenze positive anche per la fede stessa. Ciò permetterebbe a tutti noi credenti, sia nel mio caso di fede cristiana che nel caso di altre fedi, di discutere e proclamare quello che la fede significa per noi, perché fede e ragione procedono di pari passo e in che modo la fede arricchisce e guida la nostra vita, nonostante i nostri peccati. Questo mostrerebbe il potenziale della fede a molte persone che stanno ancora cercando un significato spirituale ma che considerano la fede come un qualcosa di irrazionale, superstizioso e pieno di pregiudizio. Ciò consentirebbe di credere in Dio in modo vero e razionale e segnerebbe il percorso del 21° secolo. La fede appartiene al mondo e il mondo ne ha bisogno.





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