LETTURE/ Perché il nostro nome non si può cancellare?
“Cos’è un nome? Nulla. Un suono che chiama un corpo, un campanello che ti aggioga. Ricevere un nome è la prima prova che siamo in balia degli altri”. LUCA MANES su Antonella Anedda
“Cos’è un nome? Nulla. Un suono che chiama un corpo, un campanello che ti aggioga. Ricevere un nome è la prima prova che siamo in balia degli altri”. Così, nella prosa che apre il libro “Salva con nome” (l’ultimo della poetessa Antonella Anedda. Mondadori, collana “Lo specchio”, pag. 119, 16 euro), è detta quella profonda subordinazione che ogni giorno ci tocca e possiede. Quotidianamente il suono di noi viene pronunciato, in poche sillabe distratte che non colgono la spina più acuta della voce, da bocche estranee, dal pensiero dell’altro, fino al punto in cui il destino si restringe, si racchiude nel nome. La vita, allora, diventa un viaggio, una fuga, un abbandono dal suono pronunciato, dal nome che abbiamo, fino alla nostra estinzione, all’estinzione del sé (“estinguere la passione del sé! / estinguere il verso che rima / da sé: estinguere perfino me” è il verso di Amelia Rosselli citato nel Coro). Per farci coro, il nome che siamo, destino comune.
“Io è un altro”, scriveva Rimbaud nella Lettera del Veggente. Forse è proprio in questo lasciarci parlare dalla poesia, dalla parola che nasce legata al sottosuolo della nostra comune condizione, che sta il segreto dei versi di Antonella Anedda.
“Salva con nome” è il tentativo di recuperare le tante voci prime, le umanità messe a nudo che la storia ha sepolto. Sono volti scavati e dimenticati dal tempo, frammenti di carne avvolta dai secoli, o in attesa di dissolversi, che si fanno suono congiunto, grido comune, nella poesia di Anedda. Il coro emerge e urla, nella dimenticanza del tempo, il riconoscimento della nudità nell’altro, per farsi, un istante, compagni.
Cosa rimane di noi? E’ la domanda che attraversa e che si impone, con sempre maggiore violenza, nell’intero libro: “Dov’è il viso che il mondo ha scacciato?”. Giungendo a quella profonda commozione per il nostro non lasciare traccia, espressa da Leopardi: “Or dov’è il suono / di que’ popoli antichi? or dov’è il grido / de’ nostri avi famosi, e il grande impero / di quella Roma, e l’armi, e il fragorio / che n’andò per la terra e l’oceano? / Tutto è pace e silenzio, e tutto posa / il mondo, e più di lor non si ragiona”. Resta di noi quella voce prima, quel canto a cui la poesia di Anedda concede voce e parola. Rimane il nome che siamo. Quella di Anedda è una poesia che nasce dal punto più profondo, dalla spina più acuta, dalla cicatrice più scavata della nostra sofferenza. Una parola che emerge dentro la carne che muore e scompare. Sono le ultime sillabe di un corpo che “cadendo batte la nuca”:
Cadendo batte la nuca.
Solo un po’ di sangue
nell’angolo tra i capelli bagnati
poi tutti i pensieri a picco.
Da dove resta (non spostano il corpo)
spinge in un dirupo le parole
una manciata di sillabe
prima rigide, poi frantumate.
Questo è il vertice della poesia di Antonella Anedda. C’è qualcosa in noi, dei frantumi, una manciata di sillabe, che neanche il tempo riesce ad annullare, a spazzare via. C’è un barlume, un resto di voce, che resiste dentro le Residenze invernali (il primo libro della poetessa, uscito nel 1992). Un canto che ritorna alla memoria da un passato remoto, o quasi pre-natale, e implora di poter durare. In quel atto di amore che è la poesia.
L’uomo è, così, una bocca spalancata al vuoto che ci divora, che urla di poter rovesciare il proprio destino. Un volto che “grida e affonda”. Le cui ultime parole, incancellabili, sempre sospese tra resa e rivolta, sono: “Ancora ti svegli con un brandello di futuro”. Dentro questa cicatrice, nelle cerchia di un grido mai taciuto, scavano i versi di Antonella Anedda. Dando voce al nome che siamo.
(Luca Manes)
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