LETTURE/ Barcellona: c’è una fede che si “inchina” alla scienza (e perde)

- Pietro Barcellona

Carlo Maria Martini e Ignazio Marino, nel loro ultimo Credere e conoscere, sostengono che la scienza è abilitata a dare all’uomo i criteri dell’agire. PIETRO BARCELLONA non è d’accordo

martini_cardinaleR400 Il card. Carlo Maria Martini (InfoPhoto)

Carlo Maria Martini e Ignazio Marino hanno pubblicato un libro intitolato Credere e conoscere che ha suscitato immediatamente una vasta eco di commenti tutti orientati a sottolineare la novità di un impianto in cui si suggerisce alla Chiesa di liberarsi da ogni chiusura aprioristica di fronte agli inevitabili cambiamenti legati al processo della scienza e della tecnica. Ad esempio i commenti di Massimo Teodori e di Vito Mancuso hanno elogiato l’atteggiamento dei due dialoganti nell’affrontare i temi più scottanti della cosiddetta “bioetica”, relativi all’inseminazione artificiale, alla creazione di embrioni, al testamento biologico, ecc. 

A differenza del tradizionalismo del Papa e della Chiesa, Martini e Marino aprono a un confronto alla pari fra etica e scienza. Sembrerebbe secondo questi commenti che l’assunzione della scienza a premessa indiscutibile del discorso umano legittimi anche l’uomo di fede ad esprimere la sua sensibilità. Il tema del rapporto fra scienza ed etica è in realtà il riflesso del più generale confronto fra scienza e saperi umanistici. Personalmente non credo che l’etica fondata sul soggetto e sulla coscienza umana possa far valere le proprie ragioni di fronte ad un sapere scientifico che invece tende a ricondurre i comportamenti umani ad una logica tutta oggettiva di sequenze molecolari e di connessioni comportamentali, determinate dall’unico principio evoluzionistico della sopravvivenza della specie. 

Discutendo del rapporto fra scienza e filosofia, Sandro Modeo, in un articolo sul supplemento del Corriere, proclama a chiare lettere “il suicidio della filosofia” e afferma in modo perentorio che le risposte più profonde sul senso ultimo della vita e quindi anche sulle questioni etiche ormai sono assegnate alla biologia e alle neuroscienze. Si legge in questa prospettiva il ruolo centrale che viene assunto dal cervello e dal sistema nervoso. È attuale l’immagine di Lorenz, L’altra faccia dello specchio, che appare a Modeo metaforicamente suggestiva ma impropria perché i substrati neuronali, che ci permettono di accendere delle scene sul mondo, non agiscono come superfici passive ma come strutture attive e creative già a livello percettivo. Il dentro e il fuori del cervello, la mente e la “realtà” del mondo si integrano in una rappresentazione che è il puro risultato delle nostre attitudini naturali ad avere cognizioni della realtà. La realtà (la natura) si organizza autonomamente secondo i criteri della selezione evoluzionistica dando vita a progressive connessioni tra funzionamento mentale, comportamento individuale e stimoli del mondo esterno.

Modeo considera il neorealismo della più recente filosofia un puro tributo postumo al tradizionale pensiero filosofico che si è interrogato sul senso della vita e che oggi dovrebbe invece consegnarsi al cognitivismo delle neuroscienze idoneo a spiegare in modo assolutamente oggettivo le modalità del comportamento umano. Ma il cognitivismo scientifico e l’evoluzionismo non possono riconoscere le idee di libertà e di responsabilità che sono il presupposto di qualsiasi visione etica della vita. Il principio della selezione evolutiva si può accordare bene con il caso, che appartiene alle variabili implicate in ogni situazione concreta, ma non certo con la libertà di prender posizione su questioni che riguardano la sfera soggettiva del perché si decide di mettere al mondo un figlio o di andare in missione nei Paesi del terzo mondo a prendersi cura delle persone che soffrono. 

Evoluzionismo e cognitivismo non sono compatibili con le scelte personali che sembrano invece fondarsi su visioni etiche della vita e non su calcoli di convenienza corrispondenti ai principi della selezione naturale, della sopravvivenza del più forte o del più adatto a fronteggiare i rischi della vita. Il realismo delle nuove correnti filosofiche è assolutamente pleonastico e sicuramente attardato rispetto ai risultati che le neuroscienze, la biologia e la fisica ci propongono come chiavi di lettura del funzionamento umano e cosmico. C’è indubbiamente molta ipocrisia da parte degli scienziati nel sostenere le posizioni della loro visione assolutamente oggettiva del funzionamento del mondo e dell’universo e nel chiamare contemporaneamente in causa l’etica e la filosofia come saperi, sia pure residuali, che mantengono un proprio significato. 

In verità, si ritiene che se il progresso delle conoscenze scientifiche è la sola guida nel cammino dell’umanità per conoscere se stessa e per rispondere anche agli interrogativi esistenziali sul significato del proprio stare al mondo, bisogna coerentemente concludere che la filosofia e l’etica sono dei puri impacci ad una sempre più ampia capacità di comprendere il mondo senza quei “pregiudizi umanistici” che continuano ad avanzare pretese sul soggetto umano come persona libera e responsabile. Se ciò che l’uomo può fare coincide obiettivamente con le cause della selezione naturale, allora solo la scienza di questo processo evolutivo può assumere il ruolo di guida generale dei comportamenti umani. La lotta del sapere diventa una lotta contro l’ignoranza dei criteri oggettivi che organizzano il mondo verso la naturale destinazione di una evoluzione infinita. 

Dissento fortemente da questa riduzione drastica dell’esperienza umana ad una pura cognizione scientifica della propria destinazione evolutiva. Ritengo che i fallimenti clamorosi della scienza nell’epoca contemporanea non possono considerarsi soltanto degli errori di calcolo determinati da imperfezioni metodologiche o da disfunzioni dell’apparato tecnico-scientifico. 

In un libro di molti anni fa, un pensatore irregolare come Aldo Sacchetti, in un volume intitolato L’uomo antibiologico, metteva in evidenza drammatica i disastri che la scienza contemporanea ha prodotto attraverso le sue applicazioni dell’organizzazione della vita collettiva. Questo volumetto lontano nel tempo mette in evidenza come la scienza moderna abbia favorito una cultura della rapina del pianeta che ha determinato danni incalcolabili sulla biosfera, sulla morte e sulla scomparsa di intere regioni dotate di una propria fauna e di una propria flora, danni mortali provocati dalla farmacologia sostenuta dai grandi poteri economici, un inquinamento atmosferico senza precedenti, un consumo energetico decisamente contronatura che ha alterato in modo traumatico le condizioni di vita della maggioranza della popolazione del pianeta. Certo, si può sostenere che la ricerca scientifica non va confusa con le sue applicazioni tecnologiche, ma è per lo meno singolare che un modello di conoscenza del mondo, fondato sulla scoperta delle leggi naturali, abbia prodotto come risultato la fantasia onnipotente di poter sottomettere l’intero pianeta alla logica dello sfruttamento per la produzione di profitto. 

Resta davvero incomprensibile come mai un sapere che dovrebbe guidare l’evoluzione naturale verso i migliori traguardi, poi risulti concretamente utilizzato per sottomettere la natura alle leggi soggettive del potere di appropriazione privata delle risorse. Qual è il carattere evolutivo del puro dato scientifico che l’umanità sta consumando negli ultimi secoli le risorse energetiche depositate nel corso dei millenni nelle viscere della terra? E come si fa a non riconoscere che alcune affermazioni scientifiche, poi rivelatesi false e mistificanti, non siano alla base degli squilibri spaventosi che caratterizzano la vita di diverse aree del pianeta? Può davvero la nuova scienza che nasce dallo studio dei sistemi di funzionamento del cervello rispondere alla domanda del perché l’uomo ha provocato tanti disastri umani e ambientali, ha organizzato scientificamente l’eliminazione di altri abitanti del pianeta, ha perseguitato interi popoli considerati primitivi e barbari? La domanda etica sulla questione ineludibile della presenza del male, della violenza e della tortura nel mondo, quale risposta trova nel sapere dell’evoluzione inevitabile e nella cognizione delle condizioni fisiobiologiche che possono alimentare violenza e desiderio di uccidere l’altro? Cosa sono i massacri prodotti dalla volontà di dominio da una parte dell’umanità sull’altra dal punto di vista della scienza evoluzionista e del cognitivismo neurofisiologico? Il carnefice di Treblinka può essere processato per colpa nei confronti dell’umanità, o deve essere considerato soltanto un esemplare malato della specie umana? E cosa diventa la malattia e il turbamento mentale di fronte alla diagnosi per immagini che le neuroscienze propongono come ultimo criterio per spiegare la condotta di un assassino?

L’incredibile successo di una visione in cui la scienza assume direttamente il criterio di valutazione del comportamento dell’uomo è in realtà il segno drammatico di una emergenza antropologica in cui confluisce una cultura dell’oggettività delle spiegazioni di ogni evento senza lasciare più spazio alla rilevanza della persona umana, della sua libertà e della sua volontà. L’emergenza antropologica è infatti rappresentata da una cultura pseudoscientifica che si candida a gestire tutti i processi di conoscenza dell’uomo e a fare di ogni rappresentazione mentale l’equivalente apparentemente soggettivo di una interazione oggettiva tra i neuroni che sono all’opera nel cervello di ciascuno di noi. Empatia ed amore sono in questa prospettiva soltanto meccanismi neuronali innescati da particolari input esterni. 

Sotto questo profilo è assolutamente inspiegabile il fatto che i pensieri, che sarebbero determinati da condizioni oggettive, poi interagiscono con l’oggettività mutandone a volte totalmente la direzione di marcia. Se per esempio nella divulgazione scientifica che accompagna tutti i quotidiani si legge che per dimagrire non bisogna assumere carboidrati, il giorno dopo cambierà la dieta di milioni di persone. Come si spiega cognitivamente che il pensiero, anche fondato su false affermazioni, influenza così profondamente la condotta degli uomini? Forse si dovrebbe affermare paradossalmente che l’errore e la verità hanno la stessa funzione eziologica rispetto ai comportamenti umani, ma questo di per sé basterebbe a mettere in discussione tutti i presupposti del cognitivismo. 

Queste brevi considerazioni sono sufficienti a mettere in dubbio il principio affermato da tutti gli autori richiamati, e in particolare dalle recensioni al libro del cardinal Martini e di Ignazio Marino, secondo cui la scienza sia abilitata a fornire criteri di orientamento nella soluzione di quelli che vengono considerati i tradizionali temi della bioetica. Si potrà forse dedurre dalla possibilità scientifica di creare i figli in provetta, senza che vi sia alcun collegamento fisico e corporeo tra la madre e il figlio, che questa pratica debba essere consentita solo perché tecnicamente realizzabile? Non c’è forse qualcosa della funzione materna che non si presta ad essere spiegata scientificamente ma che richiede invece una particolare attenzione al contributo insopprimibile del rapporto affettivo tra madre e figlio alla crescita di un individuo umano che può accedere al livello di persona libera e consapevole? Cosa c’entra l’amore tra la madre e il figlio che accompagna l’intero processo dalla gravidanza alla nascita, all’allattamento, con le spiegazioni che la scienza contemporanea tende a proporre come paradigma della venuta al mondo di un nuovo essere umano? Nello straordinario film di Guido Chiesa, Io sono con te, si mostra con la forza delle immagini come Gesù, che viene attaccato al seno di Maria in violazione di tutte le regole culturali della comunità ebraica (che vieta per alcuni giorni l’allatamento materno), rappresenta un paradigma dell’amore materno più forte di qualsiasi enunciazione culturale o scientifica o legale. 

Come si fa a decidere se la pratica dell’utero in affitto, tecnicamente possibile, sia anche eticamente approvabile e legittima senza entrare nel mistero del rapporto amoroso che unisce una madre a un figlio per mesi e mesi durante la gravidanza e l’allattamento? Scelgo questo della funzione materna come il luogo in cui è più facile identificare il conflitto tra le prescrizioni scientifiche e l’istintività amorevole che unisce una madre a colui che nasce dal suo ventre. Le prescrizioni scientifiche suggeriscono oggi in tutto il mondo di separare durante le ore notturne i figli dalle madri e di collocarli in una speciale nursery dove saranno accuditi dalle infermiere per non stressare troppo le madri e per lasciare che i bambini sperimentino la separazione. 

Già in questo banale esempio di vita normale si coglie tutta l’aberrazione dello scientismo moderno e il tradimento delle vocazioni naturali degli esseri umani che invece il cosiddetto cognitivismo dovrebbe assecondare. In realtà il cognitivismo, lo scientismo, l’evoluzionismo, sono tutte ideologie del mondo contemporaneo che tende a relegare nel sottosuolo dell’emotività i veri significati che hanno strutturato la vicenda umana sulla terra. Provino gli scienziati e gli oggettivisti del nuovo realismo a capire il segreto di una maternità e capiranno perché secondo il mio modesto parere questa vulgata scientista sta producendo una vera emergenza antropologica. Il cognitivismo, lo scientismo e il realismo oggettivo sono complici di una negazione, di una rimozione totale della rilevanza della sfera degli affetti e dell’amore per la costruzione di una persona libera ed indipendente. 





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