LETTURE/ La Chiesa si rinnova sempre. Chiedetelo alla sua storia…

- Danilo Zardin

I dieci volumi de La Chiesa e la sua storia sono stati riproposti recentemente da Jaca Book. Conoscere la Chiesa è andare al fondo di un fenomeno vivo. DANILO ZARDIN

SantAgostino_nello_studioR400 Vittore Carpaccio, Sant'Agostino nello studio (1502; immagine d'archivio)

La pubblicità editoriale la definisce “un’opera indispensabile in ogni famiglia. Un regalo di valore per battesimi, cresime, prime comunioni, matrimoni”. Non vedo nessuna esagerazione riprovevole in questa franca apologia. Ma i dieci volumi di La Chiesa e la sua storia, ora riproposti da Jaca Book e Itaca in una versione decisamente più moderna e suggestiva di quella originaria apparsa una ventina di anni fa, sono molto di più di un prezioso manuale illustrato per ragazzi. Intrecciando il linguaggio dei testi alla forza persuasiva delle immagini, possono diventare una chiave di accesso agile ed elementare, da tutti abbordabile, per introdursi nel fiume millenario della vita cristiana dispiegata nel tempo e nello spazio.

È un fiume che, ramificandosi lungo percorsi spesso intricati, arriva fino a noi, nel cuore del nostro presente. Immergersi nelle sue acque, lasciarsi attirare dalla vivacità spumeggiante dell’energia che le trascina è oggi, per noi, soprattutto una questione di affezione. Non credo ci sia nulla di sdolcinatamente sentimentale in questo (fermo restando che sentimenti ed affetti sono assi centrali per la vita di ciascuno). La storia della Chiesa, infatti, è in primo luogo un amore in cui riconoscersi. Cresce in funzione dell’attaccamento a ciò che si è.

L’interesse che le si può rivolgere nasce ultimamente da qui: in forza di un desiderio di identificazione, quando ci si sente spinti a immedesimarsi nel flusso di una avventura umana che ci coinvolge, a cui si scopre pian piano di appartenere, che vogliamo capire, di cui ci sentiamo chiamati a decifrare i segni, i lineamenti, le eredità che ci ha trasmesso. In un certo senso, anche su questo fronte si parte da una esperienza incontrata. Si muove da una presenza, non da un vuoto semplicemente da riempire conoscendolo, imparando a dominarlo. Si tratta di andare sempre più a fondo di un fenomeno vivo qui e ora, fatto di volti, di rapporti, di gesti sacramentali, di vincoli di autorità, con la sua visione del destino vero dell’uomo, con il suo stile etico che discende da una concezione nuova di sé e del mondo.

Ma una presenza così non si genera nella durata effimera dell’istante. Non si fa da sé. Più ci si immerge nella vertigine della sua profondità, più si viene spalancati alla larghezza di un orizzonte sconfinato. La faccia che essa ci mostra lasciandosi abbracciare quando accettiamo di esserne resi protagonisti si rivela l’ultimo approdo di una catena annodata ad altri avvenimenti e ad altre storie. Sono storie e avvenimenti che hanno prodotto e danno alimento, ancora oggi, allo spettacolo che si disegna davanti ai nostri occhi. 

Sono la sua radice, la sua fonte: da un avvenimento come quello che vediamo accadere diventandone testimoni si viene rimandati a un avvenimento che lo precede, da un fatto a tanti altri fatti che lo hanno reso possibile, da una generazione ad altre generazioni più remote. Risalendo sempre più all’indietro, fino a un inizio al fondo del quale si profila l’avvenimento supremo da cui tutto il resto scaturisce a cascata.

Intorno a questa catena che si distende nel tempo – dal nostro presente a ritroso verso il primo germe della storia cristiana nel mondo – si struttura tutto un intreccio di storie, individuali e di gruppi spinti ad agire insieme, di opere, idee e istituzioni in grado di sfidare i secoli. Sono gli elementi di una trama che si fa sempre più fitta ed estesa avvicinandosi a noi, animata da un pullulare esuberante di tante multiformi realtà umane, che nel procedere laborioso di un cammino mai concluso inventano, costruiscono, sbagliano, scendono a patti, sono sconfitti e poi ricominciano da capo, intraprendendo nuove strade, cambiando se stessi e il contesto che abitano. Facendo così, passo dopo passo, pazientemente, senza neanche averlo programmato in partenza, hanno generato una dottrina, un sapere, un’arte, una corona mirabile di monumenti dell’intelligenza e dello spirito, che dalla musica e dalla poesia sono arrivati a nutrire lo slancio del pensiero filosofico, la scienza, la fatica del lavoro, la realtà delicata della famiglia e dell’educazione dei giovani.

Se grandiose sono le architetture del sistema teologico e dell’ordine giuridico della Chiesa universale, ancora più immediatamente carico di fascino eloquente è l’impianto della preghiera di cui il dialogo con il divino si è rivestito radicandosi nella civiltà dei popoli, geniale e accogliente è il patrimonio articolato della loro liturgia: che sono poi le fonti più genuine, prima e al di là dell’assimilazione della parola raccolta nel tesoro dei libri sacri, a cui si è abbeverato il prodigio umano della santità fiorita fin dai primi balbettii della fede in lotta con un mondo ostile, restio a lasciare spazio al nuovo.

Non sempre ci pensiamo. Ma anche il gesto cristiano più banale – un segno di croce con cui rimettiamo la realtà della nostra esistenza sotto la luce da cui ogni cosa prende il suo significato – è come un eco in cui vibra tutta la densità di una prodigiosa ricchezza filtrata dallo sviluppo creativo di una vocazione condivisa. È l’ultima punta emergente, il prolungamento fisico più visibile di un passato sedimentato come patrimonio alle nostre spalle, che si prolunga fino a noi e per questo chiede di incorporarci, se ci rendiamo disponibili, nella sua efficacia ancora pienamente vitale. Cessa così di essere un puro passato. Entra in un presente che lo fa ridiventare contemporaneo per noi, oggi, in forme sempre nuove e diverse. 

La stessa cosa succede quando facciamo nostri i canti e le parole della pietà religiosa elaborata nel corso di una inesorabile vicenda storica: si tratti delle laudi medievali, dello Stabat mater di Pergolesi, dell’Angelus o di una formula istantanea di preghiera che ricalchi il modello delle classiche “giaculatorie”. Entrare nel relitto scarnificato di una basilica romanica, o contemplare le bellezze fantasiose del barocco di ogni latitudine, dalle terre mediterranee e della galassia ispanica fino alla Baviera e ai territori cattolici del centro-nord dell’Europa, è un altro modo di rivivere la medesima esperienza. Guardare a Michelangelo e a Caravaggio (ma gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito), un’altra variazione commovente dell’unica logica dell’incontro fondato sulla simpatia cordiale.

Possiamo portare il discorso fino alle sue estreme conseguenze. Non è esagerato sottolineare che l’evento principe a cui si lega la realtà del cristianesimo come contemporaneità a cui si appartiene, ma in cui, nello stesso tempo, rifluisce la sostanza viva di un mistero divino dilatato verso i confini totali della storia del mondo, è l’eucaristia. Si sta davanti alla riattualizzazione del sacrificio di Cristo che si offre come cibo per noi. Ma l’azione sacra è compiuta “in memoria” di Chi ha inaugurato il suo dramma al primo annuncio del nuovo patto di alleanza tra Dio e l’uomo. Attraverso questa memoria vivente si crea il vincolo di una identità di cui entriamo a far parte, ultimi arrivati. Si viene innestati nella continuità di una tradizione che è la vita ininterrotta di un unico grande organismo fatto di carne e di sangue, di intelligenza e di cuore. “Memoria” è la chiave fondativa di un senso di appartenenza che si traduce nel tessuto della storia: una storia che è la nostra storia.

Davanti al dono straripante della tradizione che ci genera nel suo grembo materno ci si può aprire riconoscenti nella mossa dell’ammirazione stupita. Oppure si può fingere di poterne fare a meno, rinchiudendosi nel perimetro angusto delle cose dominabili e manipolabili solo da noi supereroi senza radici, ultramoderni esseri liberi da ogni debito verso chi ci ha preceduto. Se non ci lasciamo schiacciare nella sciocca illusione dell’autosufficienza, il primo modo per coltivare il legame di discendenza dalla civiltà di cui siamo figli è quello di cominciare a conoscerla più da vicino.





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