BAUDELAIRE/ Solo una Pietà può “guarire” la nostra parola impotente

- Luca Manes

Charles Baudelaire, osservando la noia, il tedio “ingoiare il mondo in un unico sbadiglio”, riconosce nell’uomo, quale più alta possibilità, maggiore tentativo, la partenza. LUCA MANES

metzinger_velodromoR439 Jean Metzinger, Au vélodrome (1912) (Immagine d'archivio)

Gli ultimi metri della Parigi-Roubaix. Jean Metzinger riprende, nel celebre dipinto “Al velodromo” (1912), la grande rincorsa di un “secondo”, il possibile sorpasso di un inseguitore. Col corpo teso sul manubrio, in uno scatto di nervi e muscoli, mentre la ruota del fuggitivo si avvicina sempre più. Insieme al traguardo. E poco importa se, infine, il tentativo riuscirà. Se quella vertiginosa scalata avrà successo. La linea d’arrivo, d’altronde, è fuori dal quadro, sempre più in là, oltre il raffigurato. Ciò che emerge, invece, è lui, il ciclista, nell’atto del sorpasso, della tensione, del raggiungimento. Potrebbe cadere un secondo dopo, inciampare proprio quando sembrerebbe fatta. Resterebbe, però, il quadro: quell’elevazione del tutto umana, la propria spinta al limite.

“Sempre il mare, uomo libero, amerai! / perché il mare è il tuo specchio; tu contempli / nell’infinito svolgersi dell’onda / l’anima tua, e un abisso è il tuo spirito / non meno amaro” (L’uomo e il Mare). Charles Baudelaire, osservando la noia, il tedio “ingoiare il mondo in un unico sbadiglio”, riconosce nell’uomo, quale più alta possibilità, maggiore tentativo, la partenza. Ovvero la ricerca, l’esplorazione delle regioni perdute. Da qui prende avvio la stagione più significativa della modernità poetica, il simbolismo francese. La parola poetica, in quanto creatura dell’immaginazione (“la più scientifica delle facoltà umane”), dove immaginazione significa ri-creazione in unità armonica di frammenti sparsi, deve tendere all’ideàl, all’Assoluto. Restituirlo in immagine, dopo la visione, dopo il raggiungimento. “È un tempio la Natura ove viventi / pilastri a volte confuse parole / mandano fuori; la attraversa l’uomo / tra foreste di simboli dagli occhi / familiari” (Corrispondenze). Tutta la realtà, disarmonica e frammentata, ci dice di un legame analogico con l’Oltre, con l’ideale. La parola, così, inizia il proprio viaggio, la rincorsa alla ruota dell’immagine, della vera parvenza, per liberarsi dall’“atroce Angoscia sul mio cranio”, dalla finitezza dell’esperienza. “In alto, sugli stagni, sulle valli, / sopra i boschi, oltre i monti, sulle nubi / e sui mari, oltre il sole e oltre l’etere, / al di là dei confini delle sfere / stellate, tu, mio spirito, ti muovi” (Elevazione). 

Ma perché partiamo? L’uomo (Baudelaire parla sempre di tutti noi, di una condizione, della nostra natura) è scolpito, scavato da una brama, da un desiderio che supera ogni possibile risposta, raggiungimento: “E andiamo sul finito degli oceani / cullando l’infinito nostro”, e sempre rimane insoddisfatto, nulla colmandolo. Perciò l’unica via d’uscita è oltre il Tempo, il traguardo al di là del quadro e del crinale, l’Assoluto da cui pur veniamo, e da cui siamo separati, divisi. La parola poetica, d’ora in poi, deve cogliere, intuire, toccare l’ideale. 

È la grande condizione d’impresa in cui si muove e agita la modernità, a fronte della quale facilmente si possono individuare i molteplici tradimenti della scrittura. Non meno dell’Assoluto, non meno di tale rivelazione. È lo scoglio contro cui si è imbattuta la poesia: ogni verso, nell’atto stesso della scrittura, mette a rischio sé stesso, la propria esistenza. In ogni istante la parola è sul punto di rimanere soffocata, sconfitta, non detta (si ricordi il drammatico tormento di Stéphane Mallarmé di fronte alla pagina bianca, o il singhiozzare frammentato di uno scrittore a noi più recente come Giovanni Testori). 

La poesia deve sorgere, nascere ancorata all’indicibile, per renderlo immagine, lettura, esperienza, e per colmare quell’infinito di cui siamo fatti, e di cui tutta la realtà è richiamo. Così, osservando una donna passare per la via, e lentamente allontanarsi, scomparire, Baudelaire scrive: “O fuggitiva / beltà, per il cui sguardo all’improvviso / sono rinato, non potrò vederti / che nell’eternità?” (A una passante). Un lampo che si accende nella notte, e promette un rincontro, un ritorno al luogo da cui proveniamo. E che la parola deve provare a dire: “Amo le tue abbassate sopracciglia, / o pallida beltà, da cui le tenebre / sembrano quasi scorrer giù, ed i tuoi / occhi, benché nerissimi, m’ispirano / pensieri che non sono affatto funebri” (Le promesse di un volto).

Così il poeta parte, per poter dire, affermare, intuire. Ma ciò che egli incontra non è il nuovo, non è lo sconosciuto, ma la medesima Angoscia, la noia da cui è soffocato, l’insoddisfazione in cui è ricacciato. Alla fine del viaggio, resta la coscienza che “abbiamo visto / (per non scordare la cosa capitale) / ovunque e senza averlo mai cercato, / dall’alto fino al basso della scala / fatale, lo spettacolo noioso / dell’eterno peccato”. L’uomo è uno sconfitto, un vinto, un caduto. La parola non può tanto. Leggendo Baudelaire sorge una commozione per quello che siamo, e per quello che vorremmo essere, per il traguardo a cui aspiriamo, tendiamo, per natura. È così, tutti gli uomini hanno questa aspirazione, questo ideale, “ipocrita lettore, − o mio simile, − o fratello!”. È quella tensione del ciclista, del secondo, dell’inseguitore, alla ruota davanti. È quello sporgersi oltre noi, oltre il nostro limite. Prima di cadere, sconfitti e vinti.

Oppure prima che una Pietà si faccia noi incontro: “Sono l’ultimo, il più solitario degli uomini, privo d’amore e d’amicizia, e per questo inferiore al più imperfetto degli animali. E tuttavia sono fatto, io pure, per comprendere e per sentire l’immortale Bellezza! Ah! Dea! Abbi pietà della mia tristezza e del mio delirio” (Il folle e la Venere, da “Lo spleen di Parigi”).





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