PAPA/ Chi ha paura della visita di Francesco a Lampedusa?

- Giuseppe Monteduro

Domani, 8 luglio, papa Francesco si recherà a Lampedusa per una visita. Dirà messa nel campo di accoglienza dei profughi. Qual è il nostro modello di integrazione? GIUSEPPE MONTEDURO

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Domani, 8 luglio, papa Francesco si recherà a Lampedusa per una visita e per celebrare una messa nel campo di accoglienza dei profughi: il tema dell’immigrazione sta tornando con forza nelle discussioni pubbliche. Il viaggio di Sua Santità riporta in evidenza il rapporto costante e continuo che riguarda l’Italia nei confronti dell’accoglienza dei migranti. Poco tempo prima il ministro dell’Integrazione del governo italiano, Cecile Kienge, aveva dichiarato che la soluzione al problema dell’immigrazione (in particolare a quello che concerne gli stranieri nati sul suolo italiano) sarebbe da cercare nel meccanismo dello ius soli che rappresenterebbe una giusta risposta al tema dell’integrazione degli stranieri.

Lo ius soli, infatti, prevede di assegnare la cittadinanza italiana a coloro i quali nascono sul territorio italiano da genitori stranieri, legando, appunto, il concetto di integrazione a quello di cittadino. Va da sé che l’essere cittadino di uno Stato è sicuramente un aspetto che favorisce meccanismi identitari che possono essere positivi (accesso ai servizi di welfare, riconoscimento degli stessi diritti assegnati agli italiani ecc). Lo strumento proposto resta però, a mio avviso, sempre confinato nell’ambito di meccanismi statuali cittadino/non cittadino che non offrono risposte complete al tema dell’integrazione.

Il problema dell’integrazione degli stranieri all’interno di una società, se dapprima rappresentava solo una questione che aveva a che fare con l’ordine pubblico, oggi va ripensato in termini di ordine sociale. La scuola, ad esempio, è una delle prime frontiere in cui il rapporto straniero/italiano richiede nuovi meccanismi educativi, e all’interno della quale si formano le prime tendenze integrative. La domanda che dobbiamo porci è: è sufficiente lo ius soli a garantire integrazione? 

Se usciamo da un’ottica tipicamente hobbesiana, secondo cui l’integrazione è ottenuta mediante la partecipazione all’accordo collettivo che dà vita allo Stato, il quale riconosce la cittadinanza in quanto espressione di quell’accordo, notiamo che la semplice cittadinanza è sì uno strumento importante, ma non dice nulla del problema sociale dell’inclusione/esclusione. A mio avviso, non basta un cambiamento della carta di identità a far sì che lo straniero si senta “a casa lontano da casa”. 

L’Italia, a differenza della Francia o dell’Inghilterra, non ha ancora maturato un proprio modello per l’integrazione degli stranieri: di tanto in tanto si passa da spot di carattere assimilazionista, tipici del modello transalpino (“gli stranieri devono imparare la nostra cultura”) a spot di carattere multiculturale (britannico) che alla fine finiscono per essere l’opposto dell’integrazione, ovvero una completa assenza di dialogo tra cultura ospitante e cultura immigrata.

Non si può integrare senza entrare in contatto (come si è visto ciò è all’origine del fallimento del multiculturalismo), né, parimenti, si può chiedere allo straniero di abbandonare in pubblico la propria cultura, garantendogli la possibilità di esprimerla negli spazi privati (si tratta del modello laicista che è tanto in voga in Francia, anche sul tema delle identità religiose). L’integrazione presuppone la piena accettazione dell’altro, all’interno di un quadro ideale (e conseguentemente giuridico) che ne permetta l’espressività e ne richieda il rispetto per la cultura del Paese ospitante.

Gli stati occidentali (e l’Onu) hanno definito questo quadro ideale nei termini tipici dell’illuminismo: i diritti individuali sono alla base di quell’orientamento culturale che vive una profonda crisi, perché non in grado di capire la complessità del fenomeno. Il tema dell’integrazione ha a che fare con gli aspetti relazionali di un soggetto: “spostare un individuo da un posto all’altro non è come spostare un mobile”. L’integrazione richiede spazi di socialità, di relazionalità, che non possono essere “liquidati” appena con un diritto alla cittadinanza. La piena integrazione non è con lo Stato, ma con la società nella quale il soggetto migrante va a vivere. L’Italia deve fare lo sforzo di definire propri principi ideali che siano il più possibile inclusivi dell’altro, e contemporaneamente rispettosi della nostra tradizione culturale. Le scorciatoie scelte in questi anni (vedi legge Bossi-Fini o Turco-Napolitano) non hanno prodotto risultati positivi, perché si sono inserite in un contesto che non ha affrontato il problema in maniera completa: hanno soltanto regolato gli accessi sul nostro territorio.

L’integrazione con l’altro presuppone una chiara identità del paese ospitante: per poter entrare in dialogo con qualcuno (senza soccombervi o restarne distaccato) è necessario esprimere i propri principi fondanti. Per questo non possiamo eludere la domanda:  qual è la nostra identità? La riposta rappresenterà “il modo con il quale pensiamo l’integrazione”.





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