LETTURE/ “Avventurieri dell’eterno”, le rotte di un desiderio con la D maiuscola

- Egisto Mercati

E' in libreria "Avventurieri dell'eterno" di Antonio Socci, storie di uomini e donne con nel profondo del cuore un lembo di Cielo che non è di questo mondo. EGISTO MERCATI

martinmartinezpascual_R439 Il beato Martín Martínez Pascual (1910-1936) (Immagine dal web)

“Se il libro che stiamo leggendo non ci desta come un pugno che ci martella il cranio, perché allora lo leggiamo? (…) il libro deve essere un rompighiaccio per spezzare il mare gelato dentro di noi” (p. 167).

Antonio Socci è forse la penna più spavalda del giornalismo italiano, scrittore già noto a molti per l’uso della tastiera del pc come fosse un mitra sempre carico. Ma questa volta a sparare non è lui. I fucili spianati del plotone di esecuzione della guardia repubblicana mirano dritti al cuore del venticinquenne sacerdote spagnolo Martín Martínez, reo di professare la fede cattolica. E’ il 18 agosto 1936. Hans Gutmann, fotografo tedesco, scatta un ritratto straordinario che ne documenta l’ultimo istante di vita. Lo sguardo del sacerdote è luminoso, il volto sereno, il sorriso ineffabile: “quegli occhi, quel sorriso sono già illuminati da ciò che lo aspetta da lì a qualche secondo. La vita vera, la realtà vera lo aspetta” (p. 218).

Storie, quelle raccontate nel libro Avventurieri dell’eterno (Rizzoli), attraversate da una forza inspiegabile, come una luce che fa fiammeggiare d’azzurro l’essere degli uomini che appartengono alla terra e alle sue contraddizioni, alle sue quotidiane miserie, ma hanno nel profondo del cuore un lembo di Cielo che le ridesta, misteriosamente, ad una nostalgia struggente per una patria che ognuno brama di ritrovare. 

Come Katja Giammona, bella e famosa attrice italo-tedesca che conosce tutte le frivole soddisfazioni del divertissement… poi l’inferno la inghiotte, per spalancare infine il suo sguardo a quel Cielo che le mancava e che la fa respirare, vivere. Dall’esperienza di questa donna di quarant’anni sgorga un mare di freschezza, di letizia, di fede  che incolla il lettore a pagine profonde e intense.

Se Augusto Del Noce ha descritto la violenza del  pensiero unico come la proibizione di fare domande, Antonio Socci abbatte il muro che inibisce le più autentiche urgenze dell’animo  umano e riapre alla loro legittimità. Ma quali sono queste domande e da cosa nascono? Da una sete di sapere? Niente affatto. Nascono da un sapere questa sete che ci muove, un sàpere che “intender non lo può chi non lo prova”.

Socci pone al centro del suo libro l’homo quaerens, l’uomo che domanda, l’uomo che è la sua domanda.

Dal Caligola di Camus a Ferdinando Pessoa, da Cesare Pavese a Guido Gozzano, da Kerouac, Leopardi, Kafka, arte e poesia innalzano a vertici espressivi inusitati le domande che urgono nel cuore di ognuno di noi. “Che cosa deve dunque accadere? Ma siamo tutti inquieti (…) e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa, che ci fa trasalire la pelle nuda” (p. 75). E ancora: “ho bisogno della luna, o della felicità, o dell’immortalità: di qualche cosa, poniamo di pazzesco purché non sia di questo mondo” (p.75).

Sorprende la descrizione di una Praga enigmatica e magica percorsa e guardata da un Socci poco più che trentenne che rilegge la vicenda umana di Franz Kafka, profeta di un’Europa che conoscerà la mostrificazione dell’uomo e i demoni del nazismo e del comunismo, come la minaccia incombente del pensiero nichilista. “Kafka era dotato di uno spaventoso potere di premonizione, che vedeva fin nei minimi particolari, gli orrori che stavano maturando” (p. 158).

Sovrasta la piazza, nel centro di Praga, il grande orologio astronomico, ancora oggi attrazione per tutti i turisti, a ricordare, allo scoccare di ogni ora con la sua processione meccanica, l’inesorabile scandire del tempo, la morte che suona la campana e il gallo d’oro che lancia uno squillo di tromba. Testimoni incontrovertibili di tutti quei tentativi umani che, contando solo su di sé, portano morte e distruzione. La piazza diventa metafora di una prigione in cui “tutti vivono dietro le sbarre da cui non riescono mai a fuggire…” sebbene “non si possono spezzare catene, se non ci sono catene visibili” (pp. 172-173).

Il giovane profeta inascoltato grida l’artificio, lo spaesamento, il fallimento della vita: “Le catene dell’umanità sofferente sono fatte di carta d’ufficio (…) non ci sono più miracoli, ma solo istruzioni per l’uso, formulari e disposizioni (…) eppure questo smarrimento non ostacola la possibilità di un riscatto”, la speranza di un imprevisto, di un miracolo: “Che, durante il trasferimento, il Signore passi per caso nel corridoio, guardi in faccia il prigioniero e dica: ‘Costui non rinchiudetelo più. Ora viene da me'”. 

Il profeta capisce che questa esigenza è inscritta nel cuore col fuoco, ma non trova la strada. “Esiste un punto d’arrivo, ma nessuna via” (p. 173). Eppure quella antica piazza potrà vedere uomini che troveranno quella strada e spezzeranno le sbarre della prigione, con il dono di sé.

Socci vuole esplorare così la sintassi del desiderio umano e ne descrive il movimento elicoidale: vi è un acme e poi l’estrema tensione quasi rompe la catena simbolica che lo sostiene e lo fa inarcare. Allora il desiderio si riduce a bisogno, ad appetito, a brama di appagamento di pulsioni di varia natura. Ma in questi ritratti del desiderio l’autore coglie una dinamica che è come un movimento, la vera natura di un “moto a luogo” verso un “dove” che apre all’esperienza di una felicità senza fine, traboccante, già qui su questo mondo. Sì, una cosa dell’altro mondo qui in questo mondo.

È veramente una lettura che coinvolge cuore e mente in un viaggio che man mano si inoltra in una terra sconosciuta e può, previa disponibilità del lettore, cominciare a far intravedere piccoli segni rintracciabili in quel deserto della coscienza dell’uomo moderno che insegue spesso solo ciò che si rivela un miraggio. 

Al primo crocicchio si possono scoprire le stelle e tanti accorrono perché tutti vogliono vedere il buio squarciato dalle stelle. Sono i desiderantes che cercano il punto per proseguire il viaggio. E le cose cominciano a riverberare altri indizi. “Dopo aver visto Van Gogh nessun cipresso sarà più lo stesso, nessun cielo stellato sarà più anonimo, nessun campo di grano ci sembrerà insignificante” (p. 84).

L’avventuriero è proprio quel giovane uomo, Martín Martínez Pascual, che guarda i suoi assassini, ma dentro un orizzonte così corrispondente, infinito e appagante da poterlo perfino amare come la circostanza del suo approdo alla felicità: “questa è l’unica, vera, grande avventura della vita: la salvezza”.





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