EX DC/ Mattarella rottama Scalfaro e “adotta” Cossiga

- Paolo Gheda

Molto si può dire del discorso di fine anno di Mattarella. Lo fa PAOLO GHEDA, prendendo spunto dall'analisi linguistica del messaggio pubblicata da Michele Cortelazzo e Arjuna Tuzzi

mattarella_fine2015R439 Sergio Mattarella (Foto dal sito del Quirinale)

Tra le diverse riflessioni che il discorso di fine 2015 del presidente della Repubblica Sergio Mattarella può suscitare (si pensi alla vastità e all’attualità dei temi affrontati: il lavoro, l’evasione fiscale, l’ambiente, il Mezzogiorno, l’immigrazione …), una considerazione di fondo sulle sue parole può forse aiutare a comprendere il profilo istituzionale che il nuovo ospite del Quirinale sembra indirizzato a conferire al proprio mandato. Siamo, infatti, di fronte al primo presidente con un curriculum politico pienamente cattolico di tutta la “seconda Repubblica” — se si eccettua il predecessore Oscar Luigi Scalfaro, che si deve certo considerare una figura espressione dell’ultima leva democristiana, inserita però nel convulso e, per certi versi, controverso passaggio di Tangentopoli. Anzi, secondo un’analisi dei professori Michele Cortelazzo e Arjuna Tuzzi del Dipartimento di studi linguistici e letterari dell’Università di Padova — e persino a dispetto di certe inquadrature politico-ecclesiali che potrebbero avvicinare i due politici Dc sul terreno del cattolicesimo democratico — il discorso presidenziale è inquadrabile nella «continuità temporale, con una vistosa eccezione: non rientra tra i modelli impliciti di Mattarella un altro Presidente cattolico, più vicino a noi, cioè Scalfaro».

Non a caso, quindi, alcuni hanno voluto intravedere nel lento, pacato e tutto sommato breve intervento del capo dello Stato del 31 dicembre piuttosto alcuni riferimenti alla figura dell’ultimo primo cittadino cattolico “doc” della prima Repubblica — quella, va qui ricordato, della cosiddetta “democrazia bloccata”, con il partito dello scudo crociato comunque e sempre al governo —, quel Francesco Cossiga, peraltro così caratterialmente diverso (soprattutto l’ultimo delle “picconate”) dall’andamento calmo del presidente Mattarella. Anche se ciò si potrebbe, per così dire, risolvere in una questione di ordine retorico-linguistico, e cioè in una continuità lessicale espressione di un gergo assorbito nella stessa culla politica, la Dc (come fa in buona sostanza la suddetta analisi dei colleghi di Padova, giustamente dal suo punto di vista tecnico: «Mattarella si rivela vicino a Cossiga sul piano delle caratteristiche grammaticali, ma meno, anche a causa del cambiamento del periodo storico, sul piano delle similarità delle parole tematiche»).  

Viene però il sospetto che a livello sostanziale qualcosa di più concreto, identitario, colleghi gli interventi dei due presidenti (singolarmente uniti anche da fatto di essere due insulari). Certo, i tempi dagli anni Novanta sono cambiati, e l’attuale “dogma” politico culturale — francamente in buona parte una deriva concettuale del post-concilio, ma sarebbe questo un discorso assai lungo…  — è quello dell’approccio “laico” a cui debbono sottostare a tutti i costi i credenti, senza poter palesare nei propri ruoli istituzionali, nemmeno latamente, la propria fede e il proprio modo di essere cattolici. Ed è palese questa attenzione nel discorso dell’altra sera. 

Eppure, proprio nel merito dell’intervento di Mattarella non si possono non vedere i riferimenti ai valori cattolici. Innanzitutto, il diritto al lavoro viene inteso cristianamente come elemento costitutivo della giustizia sociale: come non leggere il pensiero di Giovanni Paolo II, nell’espressione: «Le diseguaglianze rendono più fragile l’economia e le discriminazioni aumentano le sofferenze di chi è in difficoltà». Così come cristiana è la modalità dell’attenzione del presidente per le categorie più deboli, delle povertà, esplicitamente ricordate quella del Meridione, delle donne, dei giovani.

Così come sul tema del conflitto di civiltà (Huntington), Mattarella assume una posizione non solo terminologicamente netta, ma usa parole quali pace e democrazia e le indica esplicitamente come “valori”: «In questi decenni di pace e di democrazia abbiamo sempre dispiegato un impegno costante in difesa di questi valori, ovunque siano minacciati». Qualcosa di questo invito alla difesa della civiltà sembra quasi evocare — indubbiamente con tutt’altro stile, ma non tanta lontananza nel merito — l’Oriana Fallaci dell’11 settembre, proprio quella de La rabbia e l’orgoglio. A tal punto che, dopo l’uso consueto dell’espressione “fondamentalismo” per indicare il terrorismo internazionale, il presidente, senza dubbi o falsi pudori, viene a definirlo come «terrorismo di matrice islamista», dandone una forte e persino in parte “politically non correct” connotazione culturale. E anche quando sul tema dell’immigrazione il capo dello Stato si riferisce alla tutela dell’identità italiana, ancora una volta non dicendolo espressamente, parla chiaramente delle radici cristiane: «Chi è in Italia deve rispettare le leggi e la cultura del nostro Paese. Deve essere aiutato ad apprendere la nostra lingua, che è un veicolo decisivo di integrazione».  

Così, l’unico elemento di espressione direttamente “ecclesiale” evocato nel discorso risulta ultimamente quello forse meno “confessionale”, dove il pudore del cattolico Mattarella lo induce ad omettere un titolo che prima ancora che espressione del depositum fidei sarebbe la denominazione istituzionale di un capo di stato estero, ovvero quello di “Papa”: «Nell’anno che sta per aprirsi si svolgerà il maggior percorso del Giubileo della Misericordia, voluto da Francesco, al quale rivolgo i miei auguri ed esprimo riconoscenza per l’alto valore del suo magistero». 

E’ proprio nel dover affermare direttamente questo passaggio della Chiesa universale, che impatta inevitabilmente sulla società italiana, che Mattarella si sforza ancor di più di fare un passo a lato rispetto alla sua storia e fede personali, ponendosi dalla prospettiva di chi si richiama personalmente ad un valore cristiano e lo traduce pubblicamente in un significato laico: «E’ un messaggio forte che invita alla convivenza pacifica e alla difesa della dignità di ogni persona. Con una espressione laica potremmo tradurre quel messaggio in comprensione reciproca, un atteggiamento che spero si diffonda molto nel nostro vivere insieme». 

Appunto, «con una espressione laica», caro Presidente, e – a un tempo – con una mente politicamente cattolica… 

Che Mattarella alla fine riesca — con il suo insospettabile stile rispettoso e pacato — laddove altri non sono, anche recentemente (non ce ne voglia il presidente Napolitano!) riusciti? A risultare cioè in sintonia con tutte le anime (anche martoriate di inconciliabilità) del nostro Paese, mettendosi sempre un passo indietro nei modi? Anche a detta di una testata non propriamente “filocattolica” come Il Fatto Quotidiano, la sera del discorso si sarebbe persino manifestata «una tolleranza da parte di Grillo nei confronti di Mattarella». E indubbiamente l’articolo di Marco Venturini ha ragione nel sottolineare che il presidente «abbia evitato accuratamente il politichese». 

Noi però aggiungiamo, nei contenuti non è stato meno politico, anzi di più.





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