LETTURE/ La sfida della post-verità alla bellezza del vangelo

- Federico Pichetto

La post-verità non è un fenomeno nuovo della nostra epoca, ma esiste da sempre. Nuovo, semmai, è il contesto in cui esso si ripropone. Ecco perché la sfida si rinnova. FEDERICO PICHETTO

arte_gaudi_sagradafamiliaR439 Sagrada Familia (LaPresse)

Dopo essere stata definita la “parola” del 2016, il termine “post-verità” ha attraversato le schermaglie e i dibattiti culturali di questo inizio anno e si è imposto come tema nell’agenda della politica e della società. Il racconto mendace della verità, secondo una delle tante definizioni del vocabolo, sarebbe infatti diventato superiore alla verità stessa fino a sostituirla. “Non esistono più fatti, ma solo interpretazioni” asseriva già più di un secolo fa Nietzsche, “ripetete una bugia migliaia di volte e diventerà la verità” rimarcava fieramente il tetro ministro della propaganda di Hitler negli anni Trenta del novecento. 

La post-verità, a ben vedere, non è un fenomeno nuovo della nostra epoca, legato ai social, ma esiste da sempre. Nuovo, semmai, è il contesto in cui esso si ripropone: la rete ha una forza di amplificazione inimmaginabile fino a neppure quindici anni fa. Eppure tutto questo potrebbe non essere così negativo come appare. C’è una vicenda poco conosciuta nel cristianesimo delle origini, su cui studiosi come John Rist hanno fatto luce, che vede la prima comunità cristiana esprimere i concetti della propria fede — tra la fine del I secolo e l’inizio del II — attraverso le categorie della filosofia stoica, quelle stesse categorie che, tramontato l’Impero di Domiziano, saranno fatte proprie da Traiano, Adriano e Marco Aurelio con lo scopo di dare una forte identità culturale ad un “dominio ormai universale” e riassorbire la nascente minaccia dei “Nazareni” rubandole lo stesso linguaggio e la stessa piattaforma culturale. 

È a questo punto — e qui sta il particolare interessante — che gli gnostici, e i padri apologisti del II secolo, a partire dal Teeteto di Platone decidono di non farsi risucchiare dalla mentalità dominante e abbracciano alcuni elementi del platonismo, ovvero il mito — la capacità di “raccontare la Verità” — e il logos — un concetto della filosofia antica già eretto dall’evangelista Giovanni a protagonista del cristianesimo. Da questo momento in poi nasce la teologia come racconto della “storia del Logos”, come racconto della storia del Verbo di Dio. Senza fuorviare il lettore con ulteriori particolari tecnici quello che appare importante imparare da questa vicenda è che, fin dagli inizi della riflessione cristiana, emerge che se il cristianesimo non vuole diventare una fra le tante filosofie dell’Impero ha bisogno di essere raccontato, di essere proposto come una Storia nella quale inserire la storia dei singoli. Non c’è Verità autentica, insomma, che non abbia bisogno di una post-verità, di un racconto, per divenire fruttuosa e capace di incidere nel tempo. 

Quest’esigenza intrinseca alla Verità, nell’epoca in cui le evidenze ultime della vita erano solide, poteva tranquillamente essere bypassata. Oggi il mutato quadro culturale rende invece nuovamente fondamentale la nostra capacità di raccontare il cristianesimo, di testimoniarlo rendendone ragione. 

Si è aperta una fase della storia dell’occidente in cui il cristianesimo è costretto a tornare alla sua ultima essenza, la testimonianza appunto, ritrovando la propria capacità di essere “storia”, storia non di concetti o di opinioni, ma di carne, di facce, di volti; storia sociologicamente identificabile, portatrice di una forza dall’Alto e resa presente attraverso l’umanità particolare di alcuni. 

Finché nel mondo cristiano europeo si punterà su una dialettica culturale, cercando di difendere i bastioni del “bel tempo che fu”, non ci si renderà mai sufficientemente conto della portata della fede cristiana che non sta in piedi per una logica di ferro o per una migliore “forza concettuale” rispetto ad altre filosofie, ma perché è Qualcosa di vero che raggiunge te, che tocca te, che coinvolge te nella Sua storia. Quando abbiamo perso la passione di “raccontare il cristianesimo”, abbiamo corso seriamente il rischio di diventare una filiale delle ideologie o dei partiti della nostra società, e tutta la storia repubblicana del nostro paese — dalle elezioni del 1948 fino alla seconda repubblica, passando per la “scelta religiosa” sessantottina — ce lo dimostra, mettendoci seriamente in guardia contro ogni riduzione della fede a cultura. La fede diventa cultura se è espressione di una storia particolare, se è racconto di una storia che attrae l’uomo perché è “viralmente testimoniata”, propagandosi di cuore in cuore come si propaga un virus invincibile.

È questo che, in mezzo alla lunga transizione che stiamo attraversando, ci insegna e ci chiede il fenomeno della post-verità: in un momento in cui la realtà smette di avere un appeal in sé e la si racconta per interpretarla e manipolarla, abbiamo bisogno di volti e di storie che la realtà la testimonino, spiazzando l’alone di malvagità e di menzogna che sembra imperversare dovunque nella Rete, e sfidando — con la povertà di una bellezza disarmata — l’insicurezza e la paura dei nostri giorni, affidandoci coraggiosamente al cuore dell’uomo, e non al consenso del mondo, per essere davvero incontrati e giudicati. La nuova frontiera del cristianesimo passa da qui. Il fatto che la storia dopo l’anno 2000 abbia subito una violenta accelerazione ci ha costretto a prenderne drammaticamente coscienza e ci ha imposto di smetterla di essere nostalgici per iniziare un nuovo processo, quello stesso processo che portò i cristiani a scrivere ciò che ancora oggi noi chiamiamo semplicemente “Vangelo”.





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