LETTURE/ La guerra dei poveri da cui è rinata l’Italia

- Laura Cioni

Non esistono, dice LAURA CIONI, soltanto i genocidi da conoscere, esiste anche quella guerra dei poveri che fu la culla della rinascita e di cui ha parlato Nuto Revelli

campagna_russia_guerra_lapresse Soldati italiani impegnati nella Campagna di Russia (Lapresse)

Nuto Revelli (Cuneo 1919-2004) è uomo di grande statura morale e scrittore rude ed efficace. Di formazione fascista, entra giovane nella scuola militare di Modena, ne esce ufficiale e nel 1942 parte con gli alpini per il fronte russo. Dopo la ben nota disfatta di quella campagna, descritta tra gli altri da Bedeschi, da don Gnocchi, da Rigoni Stern e la dispersione dell’esercito italiano seguita all’8 settembre, inizia per Revelli la lotta partigiana sulle montagne del cuneese. “Ricordare e raccontare” è il motto, imparato da un suo superiore in Russia, che guida Revelli nel riandare a quegli anni di lotta e a farne una testimonianza di dignità personale e insieme corale. La guerra dei poveri narra dal basso, ben oltre la storia ufficiale, l’esperienza degli umili, degli offesi e dei traditi che, dopo aver attraversato la retorica del ventennio, riscoprono il bisogno della verità. 

Il resoconto che Revelli fa della campagna di Russia arricchisce le altre narrazioni con una competenza militare che gli permette una disamina graffiante delle condizioni disastrose dell’esercito italiano quanto ad armamenti, equipaggiamento, strategia. Anche a chi non è specialista appare chiara la distanza tra la propaganda fascista sulle sorti dell’offensiva contro i russi e la realtà cruda di uomini lasciati soli sulle rive del Don, a combattere con mezzi inadeguati, con gli scarponi rotti che sputavano chiodi. La tremenda ritirata è descritta in tutta la sua portata di dolore e di bestialità, sia che si tratti di lasciare ai margini della fila i compagni che non reggono al freddo, alla bufera e si arrendono alla morte, sia che si descrivano gli alpini ubriachi del cognac trovato in un’isba. Sono uomini, non eroi gli alpini di Revelli. Anche quelli che nelle retrovie rubano le icone ai poveri contadini russi e le spediscono in Italia, anche coloro che impazziscono, stremati dalla fatica e dal gelo. 

Il quadro desolante di quell’umanità è guardato da un occhio che poco indulge alla pietà, ma in cui si avverte un sentimento di appartenenza. Ruvido, quale può essere tra uomini che ripiegano in condizioni estreme, ma reale. Ritrovare la propria compagnia diventa essenziale, se non si vuole essere, in mezzo alla disfatta generale, solo dei dispersi. 

Reso consapevole della menzogna del regime in cui aveva creduto, Revelli scopre il valore umano dei soldati italiani nel confronto con la brutalità e l’arroganza dei tedeschi e questa nuova coscienza lo interroga, come lo fanno pensare le parole di una predica ai reduci di don Gnocchi, al ritorno in patria: “Siamo in pochi a Udine, i più non sono tornati: Anche noi siamo morti durante la ritirata. Torniamo alla vita migliori!”. Si può uscire migliori da un mondo di bestie? Questa la domanda di Revelli. Ma il lavoro snervante di censimento dei caduti e dei dispersi, l’incontro con le loro famiglie per la consegna delle misere cose rimaste dei loro cari sembra preludere a un mondo più buono. “Racconto, racconto, ma non dico la verità. Una mamma non deve sapere che i morti li abbandonavamo sulla neve, che altra neve scendeva a coprirli”. 

E così, con l’8 settembre, dopo giorni di grande incertezza, visto il disastro delle caserme vuote e dei soldati che non cercano altro se non abiti civili, prende la sua decisione: “Qui finisce il mio fascismo fatto di ignoranza e presunzione, in questa caserma buia, per sempre. Rientro a casa che è quasi mattino. Mi tolgo la divisa: non l’indosserò mai più!”. 

Sarà partigiano sulle montagne del cuneese. Ma quanto lavoro per organizzare, per collegare, per unire; quanto discutere se dare alla lotta una colorazione politica o solo militare. Nell’immaginario di molti la Resistenza era coordinata già dall’inizio. Giorno dopo giorno, quasi in una sorta di diario, Revelli racconta invece il contrario, a cominciare dall’enorme difficoltà di unire uomini con le esperienze e le idee più diverse tranne l’unica che contava: abbattere il fascismo, vendicarsi dei tedeschi. E nel mezzo della lotta il lungo e poverissimo soggiorno a Parigi, per la ricostruzione del volto sfigurato in una azione militare. Alla fine Cuneo è liberata e fa festa. Ma Revelli chiude le finestre e resta solo col padre ferito e la mamma di Pino, suo cognato, caduto a Turini, in Francia. 

L’amore per la terra non è tematizzato in questo libro scarno. Eppure chi legge lo trova tra le righe e nelle parole con cui si rievocano sacrifici, meschinità e amicizia, brutalità e dignità degli uomini che contribuirono in modo cospicuo alla libertà del dopoguerra e al desiderio della ricostruzione. Se da troppo tempo in Italia parole come patria, coraggio, audacia hanno una connotazione retorica e ne risultano svilite, non è solo colpa della bambagia in cui molti vengono coccolati e crescono privi di forza, ma è anche colpa di una ignoranza diffusa dei tanti italiani che hanno sacrificato giovinezza ed energie in una guerra sporca e reale, di fango e di fame. Non esistono soltanto i genocidi da conoscere, esiste anche quella guerra dei poveri che fu la culla della rinascita.







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