LETTURE/ Da Venegono all’Amoris laetitia, l’amicizia di Dionigi Tettamanzi

- Roberto Colombo

Teologo e docente nel seminario di Venegono, Dionigi Tettamanzi ha servito la chiesa, prima che come pastore, come esperto di antropologia e bioetica. Il ricordo di ROBERTO COLOMBO

dionigi_tettamanzi_carlomaria_martini_lapresse_2002 Dionigi Tettamanzi e Carlo Maria Martini (LaPresse)

Quando, nel 1986, entrai nel seminario arcivescovile di Venegono per completare gli studi teologici e avviarmi verso l’ordinazione presbiterale, il cardinale Tettamanzi — don Dionigi, allora — vi risiedeva come docente di teologia morale e pastorale. Era già ben conosciuto da san Giovanni Paolo II per il suo contributo alla fase preparatoria del Sinodo del 1980 e all’esortazione apostolica Familiaris consortio, e presso la Santa Sede e le Chiese italiane e di altri Paesi per i suoi studi sul matrimonio, la famiglia, la sessualità e l’etica della vita fisica. L’anno successivo avrebbe lasciato il colle Belvedere, sul quale sorge l’imponente complesso di stile monastico edificato nel 1928 per volontà del beato cardinale Ildefonso Schuster (la cui tomba nel Duomo di Milano, ai piedi dell’altare della Virgo Potens, ora ospita la spoglia del cardinale Tettamanzi), per scendere a Roma, dove era stato nominato rettore del Pontificio seminario lombardo dei santi Ambrogio e Carlo in Urbe, dinnanzi alla basilica di Santa Maria Maggiore. Il papa ed i suoi collaboratori nei dicasteri vaticani lo volevano vicino a loro, per potersi più facilmente avvalere della sua preziosa collaborazione in questioni morali e pastorali complesse e delicate, di cui era particolarmente esperto e affidabile. Ma non vi resterà molto, perché il 1 luglio 1989 sarà nominato arcivescovo metropolita di Ancona-Osimo e, due anni dopo, segretario generale della Conferenza episcopale italiana.

Non appena venne a conoscenza che provenivo dalla facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Milano, dove ero stato ricercatore nel dipartimento di scienze e tecnologie biomediche dell’Ospedale San Raffaele, volle conoscermi personalmente, nonostante quell’anno non dovessi frequentare le sue lezioni. Mi invitò nel suo studio, nell’ala del seminario riservata ai professori, e rimasi stupito — già in quel primo colloquio — dalla grande affabilità e semplicità, mista al desiderio di conoscere la mia persona e l’esperienza da cui provenivo, con la quale mi accoglieva, una posizione assai diversa da quella distaccata e un po’ cattedratica di altri docenti. 

Si interessò agli studi e alle ricerche che avevo compiuto in Italia, in Inghilterra e negli Stati Uniti, e ne nacque una rispettosa ma cordialissima amicizia, favorita anche dal temperamento di cui ci ha dotati la comune terra da cui proveniamo, la Brianza. Appresi anche che avevamo alcune conoscenze condivise con diversi medici milanesi che don Dionigi frequentava assiduamente per apprendere da loro temi e problemi nuovi della medicina che presentavano aspetti morali particolarmente complessi o difficili da affrontare.

Una familiarità e amicizia con i medici e gli scienziati che ricorda quelle di Pio XII e di san Giovanni Paolo II e portò il futuro cardinale Tettamanzi ad essere da loro profondamente stimato, ricercato e ascoltato. Nel 1998, quando era già arcivescovo di Genova, divenne assistente ecclesiastico nazionale dell’Associazione medici cattolici italiani (Amci), una successione impegnativa e non facile al ruolo ricoperto dal cardinale Fiorenzo Angelini, che era stato per oltre quarant’anni la guida spirituale dell’Amci. L’anno successivo mi chiese di divenire uno dei suoi tre vice assistenti nazionali dell’Associazione: non era facile resistere alle sue richieste, che poneva con grande garbo e dandone le ragioni sincere, non disgiunte da quel permanente sorriso che sapeva contagiare di umanissimo entusiasmo i suoi collaboratori. Inoltre, sapeva delegare i compiti quando era opportuno farlo, senza soverchiare i suoi subalterni e sempre rispettoso e grato per il loro contributo all’opera comune. Una dote, questa, che — unita alla robusta capacità di promuovere la collegialità delle decisioni, facilitare la sintesi e difendere l’unità nella pluralità delle opinioni e delle personalità — fece di lui un punto di riferimento imprescindibile dei medici credenti e dei religiosi impegnati nel mondo della sanità, ben oltre i confini dell’associazionismo cattolico.

Due sono i campi dell’antropologia, della morale e della pastorale nei quali il cardinale Tettamanzi ha maggiormente espresso un contributo originale, innovativo e incisivo nella teologia, nella cultura e nella prassi della vita ecclesiale (ma non solo, perché anche il dibattito “laico” e civile è stato arricchito dalle sue riflessioni e provocazioni). 

Il primo è quello del matrimonio e della famiglia. Per non menzionare le numerose pubblicazioni di articoli e monografie di questo autore (Tettamanzi fu anche un instancabile e fedele interprete e diffusore dell’enciclica Humanae vitae e dell’esortazione apostolica Familiaris consortio), veniamo subito al breve scritto che ebbe una grande ricezione sui mass-media e tra i pastori e i fedeli: la Lettera agli sposi separati e divorziati dal titolo “Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito”, pubblicata nell’Epifania del 2008, quando era arcivescovo di Milano. Questo limpido e asciutto testo ben esprime la sua originale capacità di comunicare semplicemente e immediatamente e di entrare in sintonia con i dubbi, le domande e le attese dei lettori cui si rivolgeva, senza trincerarsi dietro l’erudizione dello studioso e l’autorità del pastore, che non mancano certo di trasparire — ma discretamente — in questo documento.

In esso viene anticipata e, in qualche forma, preparata la grande attenzione e sensibilità di papa Francesco e dei Padri sinodali verso i fedeli che hanno vissuto delle gravi difficoltà nella loro vita coniugale suggellata dal sacramento del matrimonio e ora si trovano nella condizione di separati, divorziati, conviventi o risposati civilmente, e che sfocerà nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia del 2016. Dopo aver ricordato che “la fine di un matrimonio è anche per la Chiesa motivo di sofferenza e fonte di interrogativi pesanti” e che essa “quindi non vi guarda come estranei”, il cardinale Tettamanzi chiese con forza a questi fratelli e a queste sorelle di “non allontanar[si] dalla vita di fede e dalla vita della Chiesa” e di “iniziare un dialogo in cui comprenderci con più verità e amore reciproco”. Un amore non disgiunto dalla verità integrale della Grazia sacramentale — “Cristo è tutto per noi”, ripeteva spesso, citando Sant’Ambrogio — e una verità teologica non separata da un indefettibile amore per la vita di ogni donna e uomo, in qualunque circostanza fisica o morale ella o egli si trovi, che lo poterà ad affrontare anche il delicatissimo problema della disciplina dell’accesso alla Comunione sacramentale per questi fedeli nel paragrafo “Il perché dell’astensione dalla Comunione eucaristica”. 

Sgombrato il campo da ingiustificati eccessi rigoristici (“La norma che regola l’accesso alla Comunione eucaristica non si riferisce ai coniugi in crisi o semplicemente separati”, né a “chi ha dovuto subire ingiustamente il divorzio, ma considera il matrimonio celebrato religiosamente come l’unico della propria vita e ad esso vuole restare fedele”), il Cardinale spiega senza possibilità di interpretazioni equivoche la “impossibilità di accedere alla Comunione eucaristica per gli sposi che vivono stabilmente un secondo legame sponsale”, facendo indiretto ma chiaro riferimento all’insegnamento di san Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio: “Nell’Eucaristia abbiamo il segno dell’amore sponsale indissolubile di Cristo per noi; un amore, questo, che viene oggettivamente contraddetto dal ‘segno infranto’ di sposi che hanno chiuso una esperienza matrimoniale e vivono un secondo legame”. E conclude — con un accento misericordioso e uno stile pastorale che ricorda e prepara quello di papa Francesco — che “la norma della Chiesa non esprime un giudizio sul valore affettivo e sulla qualità della relazione che unisce i divorziati risposati”, un “giudizio sulle persone e sul loro vissuto”, ma una disciplina “necessaria a motivo del fatto che queste nuove unioni nella loro realtà oggettiva non possono esprimere il segno dell’amore unico, fedele, indiviso di Gesù per la Chiesa”.

Un secondo settore dell’antropologia, della morale e della pastorale cui il cardinale Tettamanzi ha dedicato grande attenzione e prodotto numerosi studi è quello della vita fisica, della salute e della malattia, della medicina e della ricerca scientifica. Sin dai primi anni del suo insegnamento presso il Seminario di Venegono, egli si era interessato al tema della regolazione delle nascite — presentando e commentando in diversi ambiti pastorali della diocesi ambrosiana e fuori di essa la Humanae vitae — e a quello dell’aborto procurato, con particolare riferimento alla coscienza del medico e alla legge 194, a proposito della quale scriveva, un decennio dopo la sua entrata in vigore: con essa, lo Stato italiano “rinuncia a difendere il diritto dei più deboli, cessando di essere ‘stato di diritto’ per diventare uno stato in cui la forza ha il sopravvento sul diritto” (Bioetica: nuove sfide per l’uomo, Piemme, Casale Monferrato 1987, 1 ed., p. 193). 

Quello dei diritti dei più poveri e indifesi tra i nati e non ancora nati è una delle affermazioni forti che attraversa tutto il magistero morale e sociale del cardinale Tettamanzi, costituisce un lascito indimenticabile per quanti lo hanno ascoltato e letto, ed è un tratto che — se dobbiamo azzardare un confronto (a rischio di parzialità e provvisorietà, come sempre accade in simili tentativi) con l’attuale Pontefice — lo avvicina molto a papa Francesco. “I diritti dei deboli non sono affatto diritti deboli” era solito ripetere, e lo scrisse, quasi parte del suo “manifesto episcopale” ambrosiano, nel primo messaggio di saluto al cardinale Martini e all’Arcidiocesi di Milano quando ne venne eletto vescovo, quindici anni fa, nel luglio del 2002.

Ma furono soprattutto le sue dense riflessioni antropologiche ed etiche, radicate in una profonda conoscenza e stima per il Magistero della Chiesa (così come si era espresso, in particolar modo, a partire da Pio XII e, successivamente, con il beato Paolo VI e san Giovanni Paolo II), sulle questioni poste dagli sviluppi della ricerca biomedica e della pratica clinica alla fine degli anni Settanta e nella prima metà degli anni Ottanta a rendere nota, anche al di fuori della stretta cerchia degli addetti ai lavori teologico-morali, la figura del cardinale Tettamanzi, e a legarla allo sviluppo della “scuola di bioetica cattolica” italiana. I suoi principali interessi si sono rivolti alla crescente diffusione della diagnosi prenatale per l’identificazione precoce delle malattie e anomalie del nascituro, al trapianto di organi (in particolare del cuore) e all’accertamento della morte del donatore, alla fecondazione in vitro e alle manipolazioni degli embrioni umani, ai primi sviluppi della “ingegneria genetica” e alle prospettive di terapia genica per le malattie dell’uomo, e alle nuove tecnologie per la rianimazione e la terapia intensiva, che facevano sorgere inquietanti domande sul cosiddetto “accanimento terapeutico” e la dignità del morente.

Quando, nell’autunno del 2008, venne resa nota la decisione del padre di Eluana Englaro — la donna lecchese in stato vegetativo persistente in conseguenza di un grave incidente stradale — di farle sospendere l’idratazione e l’alimentazione, il cardinale Tettamanzi scrisse una lettera alle Suore Misericordine che ospitavano e accudivano amorevolmente Eluana nella loro clinica “Beato Luigi Talamoni”, in diocesi di Milano. In questa indimenticabile lettera, carica di paterna attenzione e di profondo rispetto ma non priva di un chiaro e pubblico giudizio sul drammatico caso che scosse le coscienze degli italiani, il Cardinale affermava: “Anche ora che la drammatica vicenda della sua esistenza terrena sembra irrimediabilmente consegnata ad una conclusione irragionevole e violenta”, supplico “Dio, Signore della vita”, affinché “non lasci mancare un’estrema opportunità di ripensamento a quanti si stanno assumendo la gravissima responsabilità di procurarle la morte, privando dell’acqua e del nutrimento questa Sua amata creatura. La vita umana rimane sempre, in qualunque condizione fisica e morale, il bene fondamentale, prezioso e indisponibile che Dio consegna a ciascuno di noi e del quale noi tutti siamo custodi e servitori responsabili, non padroni”. Parole ponderate e decise che, certo, sono tornate alla mente di ciascuno di noi in occasione della vicenda del piccolo Charlie Gard a Londra, pur differente per il tipo di patologia, le condizioni cliniche e l’età del paziente.

Una testimonianza ed un testamento di umanità lieta e appassionata, di intelligenza e gusto della realtà della vita e di laborioso servizio alla Chiesa e alla società civile quelli che il cardinale Dionigi Tettamanzi ha consegnato a quanti lo hanno conosciuto e amato personalmente (“è stato facile volergli bene”, ha detto, al termine delle solenni esequie nel Duomo di Milano, l’arcivescovo eletto monsignor Mario Delpini), ai medici e agli operatori sanitari che hanno goduto delle sue riflessioni e del suo insegnamento, al clero e ai fedeli delle diocesi in cui ha svolto il suo ministero episcopale, e a tutte le donne e gli uomini che cercano la verità e vivono l’amore con cuore libero e sincero. Una testimonianza e un testamento di cui dobbiamo essere degni, come ha ricordato il cardinale Angelo Scola nell’omelia esequiale, e che chiama ad un compito ecclesiale, professionale e civico.





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