LETTURE/ Biagio Conte, storia di un amore contagioso

- Giorgio Paolucci

Una umanità dolente fatta di senzatetto, poveri, emarginati d'ogni specie. Biagio Conte, con la sua missione, rimette le loro vite in gioco. Il libro di Francesco Inguanti. GIORGIO PAOLUCCI

biagio_conte_giornaledisicilia Biagio Conte

Ci sono persone che a uno sguardo superficiale sembrerebbero vivere fuori dalla loro epoca, ma che in realtà ne incarnano le venature più profonde. Potremmo chiamarle profeti, visionari, o più semplicemente silenziosi interpreti dei segni dei tempi. Biagio Conte è certamente uno di questi. Dagli anni Novanta del secolo scorso ha messo in moto iniziative a favore dei derelitti di Palermo, ivi compresi quelli che a Palermo sono arrivati, sempre più numerosi, provenendo da mondi lontani in cerca di una vita migliore. Oggi sono più di mille coloro che ogni giorno sono raggiunti dalle schegge di bene che quest’uomo ha prodotto, confidando nella Provvidenza e puntando sulla mobilitazione dei cuori che la Provvidenza ogni giorno mette in moto percorrendo strade misteriose. Il giornalista Francesco Inguanti, che per molti anni ne ha seguito l’avventura umana e le imprese che l’hanno accompagnata, offre un ritratto originale di Biagio Conte nelle pagine del libro Qualcosa di prezioso che accade (edito da People & Humanitas, 2017), frutto di una serie di interviste realizzate nell’arco di due anni, da cui trasuda il carisma di una personalità forte e insieme schiva, capace di raccogliere attorno a sé e ai suoi progetti di bene energie umane e finanziarie dalla provenienza più disparata. 

Si veste di saio, fratel Biagio, che dopo gli anni tormentati di una giovinezza inquieta ha intuito la sua vocazione in seguito a un viaggio ad Assisi. E sulle orme di San Francesco spende l’esistenza al servizio dei poveri, vedendo nei loro occhi gli occhi di Cristo che guardano lui. 

Nelle tre strutture di accoglienza che a Palermo compongono la Missione di Speranza e Carità da lui fondata, trova ristoro materiale e spirituale una umanità dolente fatta di senzatetto, poveri, emarginati d’ogni specie, migranti ai quali viene offerto vitto e alloggio, e dove molti incontrano una proposta che li aiuta a rimettere in gioco esistenze che sembravano perdute e che invece ripartono imparando un lavoro o rendendosi utili nella gestione quotidiana delle strutture di accoglienza: la cucina, la mensa, l’ambulatorio medico, la falegnameria, il forno. Così la debolezza umana ritrova nuovo vigore, il passato non è più un fardello che grava sul presente ma viene trasfigurato grazie all’incontro con volti amici che ridanno speranza a chi l’aveva perduta. Storie che parlano di un amore contagioso tra persone, scaturito dall’Amore di Uno che ha dato la vita per tutti. 

È impressionante leggere nelle pagine del libro quanto le azioni di bene nate dalla mente e dal cuore di questo missionario laico e dei suoi collaboratori siano alimentate da una pratica di preghiera che sembra appartenere più alla dimensione dei mistici e dei contemplativi che a quella degli uomini d’azione. Anche oggi fratel Biagio trascorre molti giorni raccolto in preghiera oppure in pellegrinaggio a piedi nei luoghi-simbolo del nostro Paese, portando sulle spalle una croce di legno come segno silenzioso ed eloquente di ciò che alimenta la sua esperienza umana. “Qualcuno pensa che sia tempo sottratto alla Missione — dice — e invece è il tempo meglio speso. Le più importanti decisioni non solo su di me ma anche sulla Missione le ho prese nella preghiera, non certo nei tavoli di confronto con le istituzioni”. 

La Missione di Speranza e Carità è divenuta negli anni un esempio di cosa significa curare le ferite di una umanità malata, un modello di come possa fiorire un luogo dove convivono etnie, fedi religiose e storie tra loro distanti ma che trovano modalità e forme di integrazione concrete. Come scrive nella prefazione l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, “è sufficiente trascorrere alcune ore in una delle tre comunità della Missione per verificare come sia possibile che identità differenti possano vivere senza che nessuno rinunzi alla propria, accogliendo e valorizzando il buono che esiste nelle altre”. Un’esperienza paradigmatica, sia per la comunità ecclesiale sia per quella civile, in un’epoca segnata dalla paura e dal sospetto.







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