FINANZA/ Così i “poteri forti” preparano il dopo Monti

- Mauro Bottarelli

Le centrali dei poteri forti stranieri, spiega MAURO BOTTARELLI, premono per un’Italia al voto a ottobre. E i segnali che suggeriscono l’esistenza di questo disegno aumentano

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Immagino che molti di voi lettori si aspettassero che questo articolo fosse dedicato al vertice apertosi ieri a Bruxelles per salvare l’euro. Ne parleremo martedì, invece. Non perché l’argomento non sia interessante, ma perché sento e leggo, da qualche tempo, cose che mi fanno fare strani pensieri e temere che, a vent’anni di distanza, un nuovo 1992 sia alle porte. Spero che tutti voi abbiate letto il bell’editoriale di Massimo Mucchetti pubblicato ieri da Il Corriere della Sera, davvero interessante. Parlava del blitz del fondo Pamplona nell’azionariato di Unicredit e dell’opzione di acquisto che Deutsche Bank ha su quel pacchetto del 5%: il ragionamento di fondo era chiaro, i mercati sono aperti e quindi è inutile tentare arroccamenti autarchici, ma attenzione a non svendere i gioielli di famiglia. O, peggio, a fare in modo che questi vengano acquisiti attraverso i meccanismi opachi e dietro le quinte dei processi finanziari. Sacrosanto, ma quando articoli simili, supportati da una firma di peso come quella di Massimo Mucchetti, compaiono in giorni come quelli che stiamo vivendo sulla prima pagina del quotidiano da molti ritenuto ancora la voce dei poteri forti e dei salotti che contano, l’effetto messaggio in codice è assicurato.

D’altronde, come non sentir risuonare nelle orecchie, dopo aver letto l’editoriale di Mucchetti, le parole pronunciate lo scorso 7 giugno proprio da Mario Monti, in un messaggio in videoconferenza durante il congresso nazionale dell’Acri: «Il mio governo e io abbiamo sicuramente perso in questi ultimi tempi l’appoggio, che gli osservatori ci attribuivano, dei poteri forti. L’esecutivo al momento, non incontra i favori di un grande quotidiano che è espressione autorevole dei poteri forti e presso Confindustria». Altro messaggio chiaro, questa volta molto esplicito. D’altronde, la “guerra” tra il quotidiano di via Solferino e il governo tecnico non nasce oggi, ma affonda le sue radici nelle staffilate continue che una delle sue firme di punta, l’economista Francesco Giavazzi, ha riservato senza tanti fronzoli all’esecutivo e alle sue scelte, non ultima la “spending review”.

In quello che molti hanno definito un tentativo di silenziare una voce avversa, a maggio Mario Monti ha ingaggiato lo stesso Giavazzi come consulente non retribuito, con il compito di «fornire al presidente del Consiglio e ministro dell’Economia e al ministro dello Sviluppo analisi e raccomandazioni sul tema dei contributi pubblici alle imprese». Tema sensibile, molto sensibile per un ingegnere prestato al giornalismo economico che, oltre a essere stato consulente economico di Massimo D’Alema quando questi era a Palazzo Chigi, ha scritto il saggio “Il liberismo è di sinistra”, nei fatti sdoganando la politica delle privatizzazioni e ammantando di progressismo le politiche liberiste debitamente annacquate da un statalismo da grand commis che tanto piace ai salotti buoni e ai poteri forti italiani, quelli del mercato senza merito, né concorrenza, della privatizzazione degli utili e della socializzazione dei debiti, del monopolio travestito e parcellizzato in mille partecipazioni nelle casseforti del Paese, al fine di controllare tutto senza dare troppo nell’occhio (anche utilizzando, a tal fine, i giornali che si controllano) e potendo massacrare a piacimento l’accentratore unico, Silvio Berlusconi.

Direte voi, nulla che debba o possa sorprendere più di tanto in Italia, Paese in cui le beghe economiche-politiche si sono sempre combattute più sui giornali che nei consigli di amministrazione o in Borsa. La cosa diventa più seria, però, quando due giorni fa sul sito di Bloomberg compare un articolo dal titolo “Mario Monti e i limiti della tecnocrazia”, firmato “The editors”, ovvero la direzione. Insomma, non esattamente il commento di un Giavazzi. E cosa dice la potente agenzia di stampa economica statunitense? «Quando Mario Monti fu designato – non eletto – come primo ministro italiano in novembre, molti italiani videro in lui un benvenuto sollievo dalla leadership da bancarotta e da fromboliere di Silvio Berlusconi. Con l’economia direzionata verso il collasso, la leadership tecnocratica e una pausa dai giochi della politica era esattamente ciò che volevano. Così pensavano. Ora, invece, i sondaggi vedono il livello di approvazione del governo di poco superiore al 30%, in calo dall’oltre 70% degli inizi. I media della nazione sono disincantati. Monti ha fallito nel produrre il miracolo in cui l’Italia sperava, offrendo solo rimedi dolorosi ad anni di malgoverno. È emerso che la politica conta e i tecnocrati non sono molto bravi in politica…».

Seguiva poi un’analisi dei guai strutturali dell’Italia, del suo debito monstre ereditato da Monti senza averne colpa e della situazione che vede Spagna e Bel Paese costrette a un gioco di sponda con Ue e Bce per combattere i marosi dei mercati e i tassi di finanziamento alle stelle. Poi, a chiudere l’editoriale, il messaggio in codice: «In un sistema politico rotto, quale è quello italiano, la regola dei tecnocrati può servire per un vitale, temporaneo scopo. Noi applaudiamo quanto Monti ha fatto. Ma visto che la crisi economica italiana sta aggravandosi ancora, i suoi leader non possono più porre la politica ai margini. È sia capibile che inevitabile, anche se non così incoraggiante». In buona sostanza per Bloomberg è giunta l’ora che torni la politica sulla scena italiana: insomma, voto anticipato in autunno.

Il che significa, penso che questo non sfugga agli attentissimi analisti politici di Bloomberg, centrosinistra al potere, magari in accoppiata con Pier Ferdinando Casini, il cui appello a unire moderati e progressisti in Italia ha vissuto su un timing straordinario, colto con altrettanta lestezza da un Pierluigi Bersani sempre più stretto all’angolo dall’attivismo blairiano di Matteo Renzi. Ieri, poi, a parlare di primazia della politica, ancorché legata alla salvezza dell’euro, ci ha pensato nientemeno che Jim O’Neill, presidente di Goldman Sachs Asset Management: «La crisi dell’euro è in qualche modo terribilmente semplice da risolvere… perché non è economica ma politica. Se Angela Merkel e i suoi colleghi stessero accanto al resto dell’area euro e si comportassero come una vera unione, la crisi probabilmente finirebbe questo weekend».

 

Tutto qui? Così semplice? Ma si sa, Goldman non dà consigli, traccia sentieri: come quando, nel primo trimestre di quest’anno, aveva posizionato i suoi portafogli short sul debito spagnolo e long su quello italiano, in vista del rally. Ora, però, siamo alla replica del 2011: arriva l’estate e un evento – lo scorso anno fu la svendita di titoli italiani da parte di Deutsche Bank, quest’anno potrebbe essere il fallimento del vertice in corso a Bruxelles – eccita animi e spread, con il corollario di una tensione sottotraccia che spinge per l’ennesimo cambio in cabina di regia. Le centrali dei poteri forti stranieri, quelli veri, premono per un’Italia al voto a ottobre che scelga un centrosinistra ulteriormente mitigato dalla presenza dell’Udc per garantirsi un governo affidabile e malleabile, ora che – come ricordava ieri sul Corriere il bravo Massimo Mucchetti – molti gioielli italiani – «uno per tutti: le Generali» sottolineva il vice-direttore di via Solferino – sono alla portata di tasche straniere, «a sconto» per citare l’occhiello dell’editoriale.

Come dire, un governo non eletto, a scadenza come gli yogurt e con un tasso di gradimento sia politico che popolare così basso, può adempiere a un compito simile, così delicato e così politico? Ripeto, sento puzza terribile di un 1992 in versione 2.0, con medesimi mandanti – le centrali di potere finanziario angloamericane – e medesimi esecutori, i politici superstiti dall’era di transizione Monti e dalla purga giudiziaria del caso, oltre a qualche outsider debitamente sfruttato come ariete sfonda-casta: prima fu la Lega Nord, oggi Beppe Grillo. Paranoia? Probabile, il mio lavoro si presta a questa sindrome e il caldo asfissiante di questi giorni certo non aiuta. Ma se Mario Monti, uno che con certi poteri ci è andato a braccetto per anni, non il tabaccaio all’angolo, arriva a dire ciò che ha detto en plain air il 7 giugno scorso, vuol dire che lo scontro è in atto. E non per la miseria della politica politicante italiana, ma per il futuro stesso di questo Paese: un tempo per colonizzare si usavano gli eserciti, oggi bastano lo spread e i giornali. Occhi aperti.





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