ECONOMIST/ Muraro: l’Italia maglia nera del fisco? Non è vero… E c’è un modo per migliorare in fretta

- int. Gilberto Muraro

Il regime fiscale italiano è il peggiore d’Europa e tra gli ultimi nel mondo. A dirlo è un rapporto di Business International pubblicato su The Economist. Gilberto Muraro, Docente di Scienza delle Finanze, spiega a ilsussidiario.net quali sono i veri punti deboli e i possibili miglioramenti del nostro fisco

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Il regime fiscale italiano è il peggiore d’Europa e tra gli ultimi nel mondo. A dirlo è un rapporto di Business International pubblicato su The Economist, secondo il quale il nostro Paese si posiziona al 78° posto su 82 Paesi esaminati. E non sembrano esserci margini di miglioramento, dato che siamo destinati a scendere di un’ulteriore posizione.

Per capire meglio quali sono i reali problemi del fisco italiano, abbiamo interpellato il Professor Gilberto Muraro, Docente di Scienza delle Finanze all’Università di Padova.

Professor Muraro, cosa pensa dei risultati di questa ricerca?

Vorrei vedere in base a quale parametri si è arrivati a questa conclusione. Senza conoscerli, posso esprimere solo una sensazione: trovo che questo giudizio sia un po’ troppo severo. Certo il nostro sistema fiscale non è qualcosa di cui andar orgogliosi, ma non mi pare neanche che sia la cosa peggiore che abbiamo in Italia.

Quali sono a suo giudizio i punti deboli del sistema?

La debolezza principale sta in ciò che non viene “catturato” dal sistema tributario, ovvero la forte evasione, che è una vera “macchia” nei confronti internazionali. Vi è poi un ruolo eccessivo dei contributi “sociali”, che creano un cuneo tra produzione e lavoro (il famoso “cuneo fiscale”). Questo cuneo fa divergere in misura elevata il costo del lavoro per le imprese e il salario dei lavoratori.

Chi soffre di più questa situazione?

Di sicuro la micro-impresa, nonostante abbia trovato una “salvezza” negli studi di settore, che hanno comportato una forte semplificazione. Le piccole imprese hanno purtroppo diversi adempimenti burocratici e formali che ancora creano forti difficoltà.

Esistono invece dei punti di forza nel sistema?

Il sistema tributario di per se stesso contiene dei punti “buoni”: il rapporto tra imposte dirette e indirette; la struttura dell’Irpef e dell’Ires; la tanto osteggiata Irap, che è da considerarsi una buona imposta, anche se non è mai stata capita ; infine gli studi di settore che sono evoluti positivamente.

Descritto questo quadro, quali sono i punti di miglioramento del nostro sistema fiscale?

Potrebbero essere il perfezionamento degli studi di settore; una diminuzione del ruolo dei contributi sociali; un calo graduale dell’aliquota marginale Irpef, che attualmente arriva a livelli un po’ troppo elevati; ma soprattutto il miglioramento dei rapporti tra fisco e contribuenti: occorrono maggior trasparenza, semplicità e rispetto.

Pensa che il federalismo fiscale potrà portare a un miglioramento della situazione?

Il federalismo fiscale dovrebbe comportare un miglioramento sul piano fiscale vero e proprio, oltre che sul piano economico dell’efficienza del sistema. Questo perché teoria e pratica dicono che spostando il prelievo dal centro alla periferia si hanno imposte gestite meglio e che creano minor “rigetto” da parte del contribuente, il quale è sempre infelice di pagare le imposte, ma ha meno resistenza a farlo quando sa che il gettito rimane nella sua piccola comunità.

Il rapporto di Business International evidenzia però due criticità nel federalismo fiscale: l’eliminazione dell’Ici e la redistribuzione a favore delle Regioni a statuto speciale di una quota del gettito raccolto sulla produzione degli oli minerali. Lei è d’accordo con questa analisi?

 

Sì, credo che sia stata una vera iattura aver eliminato l’Ici sulla prima casa e che sia una mossa sbagliata concedere una compartecipazione all’accisa per tutto ciò che ha a che fare con la produzione e la distribuzione degli oli minerali. Quest’ultimo è un “contentino” di notevole rilievo dato alla Sicilia, dove ci sono parecchie raffinerie.

L’accisa è però un’imposta nazionale ed è bene che rimanga tale, anche perché può essere necessario “manovrarla” per fini anti-congiunturali (basta pensare a quando il prezzo del petrolio era in continua e forte ascesa e si studiava il taglio dell’accisa). Se esiste una compartecipazione, tale manovra diventa difficoltosa e lenta per via degli interessi della regione su tale base imponibile.

È un “danno” che si può evitare?

Se andrà avanti il progetto di Calderoli, la compartecipazione all’accisa verrà concessa a fronte dell’assunzione di nuove competenze e quindi dell’addossamento di nuove spese da parte della regione. Questo può essere già qualcosa.

Non teme che il federalismo fiscale possa portare alla creazione di tanti regimi fiscali quante sono le regioni, generando più confusione e difficoltà per i contribuenti?

Indubbiamente esiste questo rischio, ma si tratta del prezzo da pagare per l’autonomia. Già con l’Ici noi abbiamo aliquote diverse, ma vi siamo sopravvissuti. Non credo che sarà un grande problema far fronte a fiscalità parzialmente diverse. Si tratta più che altro di un problema di informazione.

Un prezzo dunque che si può essere disposti a pagare…

Non bisogna dimenticare che vi saranno ragionevoli margini, per il semplice fatto che gli enti locali non potranno decidere di introdurre imposte senza una delibera da parte dello Stato o delle Regioni (in quest’ultimo caso rispettando comunque i principi fondamentali stabiliti dallo Stato).

Dovremmo avere quindi una “libertà controllata” in periferia per quanto riguarda i regimi fiscali: questa creerà differenze che però saranno gestibili sul piano amministrativo-contabile.

Inoltre, queste dovrebbero essere differenze positive, in quanto si tratta di quel “vestito su misura” che il federalismo fiscale è chiamato a realizzare in nome dell’efficienza e per rispondere più da vicino alle esigenze peculiari di ogni territorio.





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