BLUFF/ Perché gli economisti non hanno previsto la crisi?

- Paolo Costanzo

Il mondo è cambiato, spiega PAOLO COSTANZO, e la prociclicità che accompagna l’attuale ciclo economico richiede agli operatori economici e alla classe dirigente grandi sacrifici per ripristinare un adeguato livello di benessere

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Se abbiamo avuto la fortuna di apprendere le conversazioni e i pensieri di Socrate dobbiamo ringraziare Platone il quale, incurante della preoccupazione del maestro che le sue parole vagassero orfane nel mondo, ebbe l’accortezza di divulgarle.

A distanza di 2500 anni, se la preoccupazione di Socrate avesse contagiato alcuni illustri economisti ed editorialisti dei principali quotidiani a diffusione nazionale e se allo stesso tempo Marco Cobianchi non avesse scritto “Bluff – perché gli economisti non hanno previsto la crisi e continuano a non capirci niente”, edito orme, non mi sarebbero tornate in mente alcune delle “15 leggi generali della redazione” simpaticamente descritte da un autore Anonimo della stessa casa editrice in “È la stampa, bellezza”.

Nell’ambito dell’informazione, l’assenso informato presuppone la fiducia e il giudizio sull’informazione dipende dalla fiducia concessa in precedenza. Ebbene, leggendo il libro di Marco ho avuto la conferma che la libertà di pensiero e di informazione sono un bene quando aiutano le persone a capire e mettere alla prova le opinioni e a giudicare in modo libero a chi e a che cosa credere e dare fiducia.

Don Luigi Sturzo, nella sua Opera Omnia, lamentava la volontà diffusa di una classe dirigente orientata verso uno statalismo economico inintelligente e sciupone desiderosa di eliminare il rischio per attenuare le responsabilità fino ad annullarle. L’esperienza storica ha dimostrato che il benessere più diffuso e la più ampia libertà si coniugano all’economia di mercato, la quale presuppone responsabilità. Responsabilità alla quale, secondo alcuni economisti, dovevano essere sottratti i banchieri la cui funzione sociale doveva trasformarli in erogatori indiscriminati di prestiti e i cui profitti dovevano variare in funzione dei prestiti erogati perché il loro rischio, grazie ai derivati, veniva trasferito a una platea tanto ampia di investitori che nessuno aveva di che preoccuparsi.

E a nulla sono serviti i richiami di chi invitava gli intermediari finanziari a evitare un uso indiscriminato dei contratti derivati nati come strumenti di copertura e non come strumenti speculativi. Sostenere una cultura imprenditoriale e finanziaria sana, fondata su realismo e sana razionalità avrebbe impedito agli investitori istituzionali dei mercati finanziari di assicurare rendimenti medi annui nell’ordine del 15% a fronte di una crescita globale dell’economia notevolmente inferiore (2-3%).

Ed è forse questa la ragione che ha impedito la giusta visibilità a interventi di grandi e lungimiranti economisti (si pensi al Prof. Campiglio) che richiamavano l’attenzione sulle conseguenze del rischio, evidentemente considerato dai più “autorevoli” banale, dell’eccessivo assorbimento del reddito disponibile per l’acquisto di beni primari come l’abitazione e della scarsa attenzione a una adeguata politica in favore della famiglia.

Oggi il dibattito sembra indirizzarsi verso l’auspicabile attenuazione del peso del capitalismo finanziario sull’economia reale. Ma non è sufficiente: il mondo è cambiato e la prociclicità che accompagna l’attuale ciclo economico richiede agli operatori economici e alla classe dirigente grandi sacrifici per ripristinare un adeguato livello di benessere. E siamo chiamati tutti a uno sforzo culturale per la costruzione di un modello economico che si fondi sulla centralità della persona e sulla libera iniziativa, libero da rendite e interessi parassitari che assorbono una dose eccessiva di ricchezza disponibile.







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