LIBERALIZZAZIONI TAXI/ Il tassista: c’è un modo di farle bene, perchè non se ne parla?

- La Redazione

Il governo Monti si avvia ad approvare la sua prima manovra finanziaria, e l’attenzione torna sulle categorie professionali a rischio “liberalizzazioni”. Parla CIRO PICA, tassista

taxi_ppianoR400 Foto: Imagoeconomica

Mentre il governo Monti si avvia ad approvare la sua prima manovra finanziaria, l’attenzione torna sulle caste, sulle lobby e le corporazioni di questo Paese. Politici, giornalisti, tassisti, farmacisti e notai, la lista di chi viene indicato, a torto o a ragione, come nemico del cambiamento, dei tagli e delle liberalizzazioni è lunga. I tassisti, in particolare, forse anche per il ricordo del duro braccio di ferro del 2007 con Pier Luigi Bersani, allora ministro dello Sviluppo economico, tornano al centro del dibattito, anche in Parlamento. «Ogni giorno capita di discutere di questo tema con i clienti – racconta a IlSussidiario.net Ciro Pica, tassista milanese che chiarisce subito di parlare solo a titolo personale –. Una signora oggi mi ha detto: perché vi opponete alle liberalizzazioni? In una società ideale non dovremmo essere tutti liberi?».

E lei cosa le ha risposto?

In una società ideale sì, ma questa non lo è, è una società ferita. E se si parte da una visione, anche desiderabile, cercando una scorciatoia ideologica per il cambiamento, si rischia di fare danni seri. E la scorciatoia, in un momento di grave disagio come questo, passa anche dalla banalizzazione dei problemi, facendo leva magari sull’immaginario collettivo. Oggi ad esempio si parla di liberalizzazioni. Ma chi ne parla cosa intende davvero? Che progetto di società ha in mente? E che ruolo ci darà nella società che vuole costruire?

Nelle discussioni tra colleghi che ipotesi vi siete immaginati?

Personalmente spero che non accada quello che è successo ad esempio nel commercio. I quartieri, infatti, sono stati privati della loro ricchezza per poter imporre il modello del centro commerciale. Attenzione, non ho nulla in contrario ai centri commerciali o alle società di taxi, ma bisogna tenere conto di tutti i fattori in gioco.

Ci faccia un esempio.

Benissimo, prendiamo quelli come me che hanno iniziato questa professione in un regime a licenza. Ovvero che vent’anni fa hanno fatto i debiti per comprare una licenza che all’epoca costava 95 milioni di lire. Qualcuno pensa davvero di poter fare tabula rasa di questi sacrifici? Il problema è che è più comodo parlare di corporazione e mai della condizione che è stata alla base di questo lavoro. Secondo me c’è chi vuol fare il furbo e cavalcare le onde giuste per ottenere rendite di posizione.

Mi scusi, ma cosa succederebbe secondo lei se questa ipotesi si realizzasse davvero?

Innanzitutto, già oggi, grazie all’incertezza, non si vende nemmeno una licenza. In caso di liberalizzazione estrema, che permette in pratica a chiunque di diventare tassista, mi immagino comunque almeno tre anni di caos. Dopodiché un passo indietro rispetto alla deregolarizzazione selvaggia sarà inevitabile. Non mi chieda però a quel punto chi saranno i soggetti di questo lavoro e chi li regolerà. Non solo, quanti dei nuovi tassisti, dopo aver comprato la macchina e sostenuto tutte le spese per partire, si lamenterà giustamente del mancato profitto e del poco lavoro?

Mi conferma anche lei che comunque siete pronti a tutto per evitare questa ipotesi? Si dice che al di là del sindacato, basta un tam tam tra di voi per convergere in massa su Roma.

Mi lasci dire che mi colpisce sempre il rilievo straordinario che viene sempre dato a una categoria marginale come la nostra. Ad ogni modo, riguardo al passaparola c’è un fondo di verità. A volte basta un piccolo segnale per rischiare lo sciopero selvaggio. Anche questo comunque dovrebbe far riflettere. Io, ad esempio, sono più preoccupato per quei colleghi che, dopo aver ipotecato la casa per pagare una licenza che è ormai carta straccia, potrebbero cadere nella disperazione e fare pazzie.
Qualcuno lo vuole dire che la prima legge che ha dato giuridicità al nostro mestiere è del 1990, che ci ha inquadrato come artigiani. La gente comune lo sa che paghiamo le tasse sulla transizione della licenza, ma non ci viene riconosciuta come bene d’impresa? Ma, soprattutto, dov’era lo stato prima del ‘90?
 
C’è spazio anche per un po’ di autocritica?

Certo, a mio avviso manca ancora, purtroppo, una visione d’impresa nel senso più dignitoso del termine. Come ripeto spesso, siamo la più piccola impresa privata del più grande settore pubblico. Su questo siamo indietro e, forse, il sindacato, a partire da questa debolezza intellettuale, ha costruito delle rendite di posizione. Non siamo comunque la corporazione di cui si favoleggia. Sono infatti convinto che davanti a un’ipotesi di liberalizzazione virtuosa, fatta con onestà intellettuale e senza ideologia, tutti sarebbero favorevoli a rimettersi in gioco.







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