SOCIAL CARD/ L’esperto: vi spiego i vantaggi dell’ultima sperimentazione

- int. Luca Pesenti

Con LUCA PESENTI commentiamo la sperimentazione della nuova social card, la carta acquisti per le fasce economicamente più deboli della popolazione, nei comuni con più di 250 mila abitanti

social_card_r400 La nuova social card (Foto InfoPhoto)

«La sperimentazione di questa nuova modalità della social card, dopo lunghi preparativi, è arrivata finalmente in porto e vede un contributo sostanziale nella definizione della platea dei beneficiari e nella fase di erogazione di un terzo settore attivo nel contrasto alla povertà». Insieme a Luca Pesenti, professore di programmazione del Welfare locale presso l’Università Cattolica di Milano, commentiamo la sperimentazione che il governo vuole rinnovare della nuova social card, la carta acquisti per le fasce economicamente più deboli della popolazione, nei comuni con più di 250 mila abitanti. 

Professore, ci sono differenze rispetto alla “vecchia” social card?

Rispetto all’altra social card credo che i vantaggi siano principalmente due: innanzitutto questa sperimentazione tiene conto del costo della vita delle città in cui viene applicata, ed è quindi più alta; inoltre, mentre con la social card precedente la persona con serie difficoltà, dopo aver ricevuto la carta, si ritrovava comunque sola a dover affrontare i suoi problemi, questa nuova modalità definisce uno sviluppo che permette alla persona di rimanere costantemente in contatto con opere di carità che possono in qualche modo abbracciare il suo problema a 360 gradi. Si tratta quindi di un salto di qualità notevolissimo per il nostro Paese e, dopo questo anno di sperimentazione, vedremo come andrà perché una formula così innovativa presenta tutta una serie di caratteristiche che dovranno rivelarsi efficaci.

Secondo lei uno strumento del genere può rivelarsi davvero efficace nel contrasto alla povertà?

Il nostro Paese è storicamente molto indietro su questo fronte, quindi qualunque cosa si aggiunga non può che rappresentare una buona possibilità di sostenere un segmento della popolazione italiana che oltretutto in questi ultimi anni è in crescita. È aumentata infatti la difficoltà di molti nuclei familiari, quindi ben venga la sperimentazione di un progetto di questo tipo.

Potremmo soffermarci anche sul termine “sperimentazione”. In che modo la nuova social card potrà far registrare risultati soddisfacenti?

Credo che anche il fatto che sia una sperimentazione sia una cosa positiva, perché troppo spesso vengono fatte leggi che, dopo essere messe a regime, si rivelano completamente inefficaci. La prima cosa da capire è che tipo di platea di beneficiari questa carta potrà incontrare, anche se la maggior parte dovrebbero essere in povertà assoluta. Quindi anche molti clochard, che invece nella precedente social card non venivano raggiunti.

E poi?

 

Successivamente bisognerà capire che tipo di ricaduta avrà questo modello di intervento sul terzo settore in termini di aggravamento di influssi burocratici. Rispetto a questi argomenti, la Commissione nazionale d’indagine sull’esclusione sociale di cui faccio parte ha già costruito una serie di strumenti che serviranno proprio a valutare l’andamento di questa nuova social card.

Non sono comunque mancate le polemiche, in particolare da parte dell’Adoc, che ritiene la social card uno «strumento di difficile utilizzo da parte delle persone con basso reddito, non abituate a mezzi tecnologici». Per questo l’Adoc crede che «sia più semplice prevedere buoni pasto al posto della social card». Cosa ne pensa?

Misure diverse devono naturalmente sempre tener conto del contesto finanziario, quindi credo che in questo momento sia implausibile pensare a interventi più costosi. Credo che questa misura crei dei dubbi a qualcuno proprio perché si stacca in modo definitivo da un certo statalismo delle misure su questo fronte nel nostro Paese e riconosce in modo esplicito al terzo settore la facoltà di essere un soggetto pubblico a tutti gli effetti, o meglio un soggetto che eroga servizi pubblici, e che quindi lo Stato può e deve riconoscere e sostenere in questa sua valenza. Questa cultura non è ancora purtroppo sufficientemente diffusa nel nostro Paese, e quindi era immaginabile che qualcuno storcesse il naso di fronte a una misura di questo tipo.

 

(Claudio Perlini)





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