FINANZA/ L’uomo di Davos che spaventa i mercati
Gideon Rachman, inviato di punta del Financial Times al World Economic Forum, è tornato a Londra preoccupato per quel che ha notato. Ce ne parla GIANNI CREDIT
Gideon Rachman, inviato di punta del Financial Times al World Economic Forum, è tornato a Londra preoccupato: ha visto “l’uomo di Davos” – l’inconscio collettivo della globalizzazione – molto giù di forma. Ne ha di ché, scrive Rachman: il “Davos consensus” è “sotto assedio” politico-culturale da parte di leader come il presidente-ricandidato degli Stati Uniti Barack Obama o l’ambizioso sfidante del presidente francese Nicolas Sarkozy, il socialista François Hollande.
Entrambi hanno posto al centro dei loro programmi idee-guida (o magari solo parole d’ordine) che vanno in direzione opposta al credo del Wef. La politica nazionale reclama il suo primato rispetto al globalismo economico; l’industria (creatrice di lavoro, di beni e servizi) raccoglie un favore pregiudiziale rispetto alla finanza “senza volto” che ha distrutto risparmi, banche, bilanci statali, pensioni e continua a imporre ansie e sacrifici.
Di più: la concorrenza cinese (o da parte di altri paesi emersi o emergenti) non appare più così legittima – e in fondo benefica – quando viene praticata ad armi non pari (sul piano del diritti sindacali o degli standard di sicurezza dei prodotti o di tutela ambientale). Forse non per caso i “leader massimi” di Pechino quest’anno hanno disertato Davos dopo esservi stati caldamente cooptati: forse sono assorbiti dagli avvicendamenti di primo livello previsti per quest’anno; o forse sentono che a Davos (virtualmente a metà strada fra Europa e Stati Uniti) quest’anno faceva davvero freddo e neppure i “nativi” del Wef erano in grado di assicurare loro un’accoglienza davvero confortante.
In ogni caso, l’allarme è lanciato con la giusta spruzzata di demagogia: «L’uomo di Davos – scrive FT – appare ben poco attrezzato ad affrontare un “assalto populista” (sic)». E come se non bastasse: «L’idea che le “riforme strutturali”, i piani di austerity e migliori piani di formazione al lavoro rappresentino l’uovo di colombo, è niente più che una “pia bugia” (sic: “pious baloney”)». Allusione indiretta alle politiche del governo tecnico italiano? Il riferimento, nel testo, è diretto e brusco: «Il premier italiano Mario Monti» e il suo «impegno a tagliare le pensioni» sono citati più o meno come un compitino simulato per conto del cancelliere Angela Merkel.
È lei – con la sua Germania – la vera “pia illusa”, colei che rischia di tradire il “mondo di Davos”, riconsegnando le sue conquiste al “populismo statalista, anticapitalista, nazionalista”. È la sua fermezza a dannare, in fondo, Sarkozy, costretto a brandire la Tobin tax e a innescare – a spirale – la “vendetta” delle agenzie di rating. Ci vorrebbe – par di capire anche in Europa – un deciso stimolo economico: ma lo stesso Monti – dopo i complimenti di rito – sembra mostrare dei limiti se si appiattisce sul rigorismo franco-tedesco. (E vogliamo dirlo fra debite parentesi? Ai mercati la “stabilità” non piace mai più di tanto: è un governo debole che si può attaccare sul debito pubblico; e un governo tecnico degno di questo nome si riconosce soprattutto da quantità e qualità di privatizzazioni messe velocemente in vetrina).
L’anno prossimo a Davos sarà interessante vedere se e chi interverrà fra il nuovo presidente Usa (Obama o il suo sfidante repubblicano), quello francese (Sarkozy od Hollande) e il nuovo premier cinese (che sarà senza incognite Li Keqiang). La Merkel sarà in campagna elettorale. Ed è davvero difficile prevedere ora se verrà al Forum per blandire l’“uomo di Davos” o se – commissariata magari la Grecia – annuncerà la fine del party globalizzatorio.
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