FIAT/ Giannino: 100 anni di aiuti e ora il Lingotto “abbandona” l’Italia

- int. Oscar Giannino

Secondo OSCAR GIANNINO, non si può proprio dire che la Fiat sia un modello nei rapporti con la politica come invece ha detto John Elkann a Detroit. Vediamo perché

marchionne_elkan_r439 Sergio Marchionne e John Elkann (Infophoto)

Fiat “un esempio di interazione costruttiva con la politica”. “Negli ultimi 10 anni ha investito in Italia senza chiedere niente al governo”. Lo ha affermato lunedì il presidente di Fiat, John Elkann, al Salone dell’Auto di Detroit. “Quello di cui sono abbastanza sicuro – ha aggiunto – è che il vertice della nuova società sarà composto da Marchionne e dal sottoscritto. Non cambieranno presidente e amministratore delegato”. A Oscar Giannino, giornalista economico, abbiamo chiesto di ripercorrere l’ultimo decennio della Fiat in Italia, analizzandolo criticamente. Ecco cosa è emerso. «Non si può proprio dire che la Fiat sia un modello nei rapporti con la politica: non lo è stata nei cento anni precedenti e non lo è stata neanche in questi ultimi dieci». In più: «Chi in Italia si aspettava – Della Valle, per capirci – che dopo il successo dell’operazione Chrysler ci fosse una sorta di restituzione ex post, anche solo di una parte degli smisurati aiuti che nei 100 anni precedenti a questi ultimi dieci le politiche pubbliche di protezione, incentivo, sussidio hanno riservato a Fiat si sbagliava».

Perché si sbagliava?

Perché Fiat non ragionerà così. E, in effetti, pare che Fiat non ragioni così, non abbia ragionato così e non intende ragionare così. Naturalmente bisogna distinguere.

Cosa?
Da una parte ci sono gli azionisti che sono espressione della continuità aziendale. Il ragionamento che si tende a fare su Marchionne in realtà andrebbe posto su di loro che, per così dire, sono espressione della consapevolezza storica. “Io non c’ero”, dice Elkann nei decenni in cui le politiche erano tutte incentrate a tutelare il produttore nazionale. Non c’era, ma è espressione della continuità di quel tipo di azionariato. È tuttavia evidente che questo ragionamento non ha mai fatto presa sugli azionisti.

Non è mai cambiato l’atteggiamento degli azionisti Fiat nei confronti degli aiuti di Stato.

Gli azionisti si sentono del tutto immuni dal dover considerare in qualche maniera tutto ciò che nei cento anni precedenti, sbagliando clamorosamente dal mio punto di vista, la politica italiana ha riservato alla tutela della Fiat. Non sono quindi sorpreso: dire che Fiat negli ultimi dieci anni è stata un esempio di interazione positiva con la politica è una “singolarità” se si guardano i cento anni precedenti. Marchionne in questo è più coerente.

In che senso?

Quando arrivò alla Fiat nel 2004, con l’azienda al pre-default come lo fu di nuovo, quasi, nel 2009 Marchionne si rese conto che i margini delle politiche di incentivo agli acquisti in Italia erano finiti. Si era proceduto con una tale generosità che lo Stato non ce l’avrebbe più fatta. Disse che a quegli incentivi bisognava rinunciate perché drogavano il mercato e il colpo di frusta che davano negli anni successivi nel far cadere i volumi, come si è visto, era ancora più forte dell’effetto della crisi.

Non aveva tutti i torti.

Marchionne ha sempre ragionato in un altro modo. Personalmente tendo a non colpevolizzarlo mai quando si parla del rapporto tra l’azienda e l’Italia. Marchionne non ha mai nascosto, riservatamente, i suoi dubbi sul fatto che si dovesse rimanere col perimetro produttivo in un Paese che da molti anni vedeva gli stabilimenti perdere: gli stabilimenti italiani stavano in piedi solo grazie ai margini che l’impresa, quando andava bene, faceva in Brasile e in Polonia. Come non ha mai nascosto fin dall’inizio i suoi dubbi su tante altre cose.

Ad esempio?

Sulla Juventus, La Stampa e così via. Marchionne è un ottimizzatore. Ha sempre guardato a questa sfida che sembrava impossibile nel 2004 e che alla fine è riuscito a vincere: trasformare cioè la crisi della Fiat, sommata al fallimento e al salvataggio pubblico di Chrysler, in ciò che in cento anni la Fiat non era mai riuscita a fare, avere cioè un orizzonte mondiale. In altri paesi, quando c’è una storia così lunga di intrecci, di aiuti, di sussidi ecc, c’è un altro tipo di rapporto.

 

Da noi cos’è successo?

Da noi c’è stata una cesura. E per come la penso io, è giusto che sia così. Che non significa dimenticare tutto quello che l’Italia ha rappresentato per Fiat, che evidentemente non sarebbe stata quello che è stata senza che la politica per cento anni avesse concentrato i suoi sforzi per tutelarla. Se non avesse impedito sistematicamente ogni ingresso di aziende concorrenti sul mercato di produzione italiana. Ancora oggi sono tra i pochi che sostengono che fu un grave errore di cui oggi raccogliamo amaramente i frutti. L’errore per cui il sistema dell’automotive italiano è in ginocchio. Visto che in Italia produciamo poco più di 350mila vetture, mentre la Spagna ne fa 2 milioni e mezzo e Toyota da sola in Gran Bretagna ne assembla 2 milioni e rotti. È successo anche pochi anni fa.

 

Quando?

Quando, nel 2009-2010, Volkswagen manifestò un interesse per Alfa Romeo; non mi pento affatto di aver sostenuto che sarebbe stato più utile invece di continuare a pietire in ginocchio “diteci cosa fate degli stabilimenti italiani”. Un mercato che continuava a perdere è stato tenuto in piedi con il sistema degli ammortizzatori pubblici: questo è quello che la politica è riuscita a ottenere. Anzi, su Termini Imerese neanche quello.

 

Era meglio cedere l’Alfa a Volkswagen?

Almeno avremmo avuto un grande produttore che metteva piede nel nostro Paese. Basta vedere i volumi e gli utili che fanno con Audi. Invece, anche in quel caso la politica ha deciso diversamente. Ovviamente, non si trattava di espropriare Fiat di Alfa e darla ai tedeschi. Significava impostare un ragionamento diverso con l’azienda.

 

Ancora ieri a Detroit Marchionne ha ribadito che “fino a che ci sarò io l’Alfa Romeo si produrrà solo in Italia”

Questo “fino a quando ci sarò io” va letto in due modi.

 

Quali?

A Torino c’era qualcuno pronto a considerare l’offerta di Volkswagen. Marchionne invece se l’è voluta tenere come marchio da giocare con l’operazione Chrysler per entrare nel segmento più elevato. In ogni caso Marchionne dice la verità: “Finché ci sono io”. Quando Fiat-Chrysler avrà un capo azienda americano, perché questo è il futuro tanto per essere chiari, a quel punto verrà meno del tutto il ragionamento per cui il rilancio dell’Alfa – tutto da vedere e sul quale sono molto scettico – si farà solo producendo in Italia.

 

Come cambierà lo scenario?

Il capo azienda americano ragionerà sull’ottimizzazione dei margini tra tutti gli stabilimenti mondiali del gruppo. È questa la prospettiva, anche utile secondo me. Non si può proprio dire che la Fiat sia un modello nei rapporti con la politica: non lo è stata nei cento anni precedenti e secondo me non è stato un rapporto franco neanche in questi ultimi dieci. Per Marchionne rimane un’ultima sfida.

 

Quale sfida?

Quando si decide l’Ipo (la quotazione in borsa del gruppo nato dalla fusione di Fiat e Chrysler) Marchionne deve puntare all’ingresso di un grande partner asiatico, di un alleato finanziario e industriale, nel capitale di Fiat-Chrysler. Solo così può pensare di recuperare in termini brevi-medio-lunghi il gap attualmente incolmabile con General Motors e Volkswagen sul mercato cinese e asiatico. Sia esso Mazda, un giapponese, un cinese. Anche Psa, malgrado i miliardi che avuto dallo Stato per salvarsi, è stata costretta a un ragionamento implacabile.

 

Cioè?

General Motors esce dal capitale di Psa perché continua ad avere Opel in perdita e Psa imbarca i cinesi di Dongfeng che possono arrivare al 25% del capitale. Fiat-Chrysler ha bisogno di qualcosa di simile, non potendo certo offrire il 25%, ma una quota più bassa. Questa è la vera grande sfida di Marchionne per il 2014. Una sfida che non ha niente a che vedere con l’Italia. 





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