FINANZA/ 1. Il peccato originale dell’euro che non “assolve” l’Italia

- Salvatore Domenico Zannino

L’avanzata dei movimenti e partiti euroscettici ha una ragione: l’Ue non è riuscita a trovare il modo di contenere i danni dell’euro. L’analisi di SALVATORE ZANNINO

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Nell’iconografia cristiana e nella letteratura il frutto del peccato è tradizionalmente rappresentato da una mela che Eva porge ad Adamo. Perché una mela e non una pesca dal momento che il testo biblico è muto al riguardo? In realtà, nei secoli, tra uva, grano, cedro non sono mancati i competitori all’attributo di Venere. E forse si può parlare di un vero e proprio derby con il fico utilizzato da Michelangelo nella Cappella Sistina. Possiamo dire però che, dall’Areopagitica di John Milton in poi (1644), tra le due rotondità evocative del peccato, la mela alla lunga ha prevalso. Dunque, l’euro sarebbe allora una mela che fa da spartiacque, nella mente di molti, tra un periodo di beatitudine in cui si trovava l’Italia prima della sua adozione e la cacciata da tale paradiso che ha costretto gli italiani a procurarsi il pane con il sudore della fronte. Una tentazione demoniaca a cui abbiamo ceduto per voler essere come i tedeschi.

Naturalmente non esisteva alcun paradiso prima dell’euro. Nei primi anni Settanta Germania, Italia e gli altri paesi core dell’area euro avevano livelli di reddito pro-capite simili tra loro. Il Bel Paese li aveva conquistati ai tempi del miracolo, nel favoloso ventennio 1950/1970. Fino a circa il 1995 l’Italia è rimasta a contatto nei numeri con la Germania e il resto dei paesi europei. Da quel momento, mentre la media dell’eurozona e della Germania ha continuato a crescere secondo la sua traiettoria storica, perdiamo il contatto con il gruppo. La crescita diminuisce e questo ha un effetto sul livello del reddito nazionale. Da qui nasce il grande rallentamento italiano che la moneta unica, creata nel 1999, non ha determinato ma incontrato (Fonti Ocse).

Quanto poi in tali dati sulla crescita, prima della mela e dopo la mela per così dire, deve debitamente considerarsi è la dinamica del debito pubblico. Perché è facile crescere facendo debito (peraltro lasciando il Paese in deficit infrastrutturale) da addossare alle generazioni future. Spendere ricchezza che non c’era è stato il trucco con cui abbiamo un po’ barato negli anni antecedenti l’euro bruciando paglia. Ma questa crescita drogata dalla spesa corrente non regge poi l’antidoping del deleveraging successivo. In altre parole, il modello di crescita italiano precedente l’euro, contraddistinto da generosa spesa pubblica, inflazione, e sovranità monetaria che consentiva periodiche svalutazioni, mostrava, già prima l’ingresso nella moneta unica, i primi segni di crisi strutturale e non poteva durare a lungo.

L’entrata nell’euro senza aver capito che quel modello di sviluppo era finito, per sempre, e senza la preparazione del Paese alle nuove regole del gioco, a cui altri paesi come la Germania hanno presto imparato a giocare, è alla radice della crisi sistemica italiana. Il gioco, infatti, era in fondo semplice. Si chiamava competitività ed era legato al costo del lavoro per unità di prodotto e più in generale alla produttività del lavoro, ma anche alla manutenzione di un ambiente favorevole agli investimenti privati. In fondo regole a cui, euro o non euro, la globalizzazione ha costretto tutti i paesi.

Ciò detto a ricostituente della memoria, tuttavia, non riconoscere nell’euro una matrice di peccato originale vuol dire essere proprio ciechi. Vuol dire non vedere Marine Le pen in testa ai sondaggi per le presidenziali francesi, il fiume in piena dei movimenti eurodisgregatori in Italia, Danimarca, Inghilterra, Ungheria. Non vedere in Germania la borghesia che votava il partito liberale (Freie Demokratische Partei) correre in massa sotto le bandiere del partito per l’Alternativa (Alternative für Deutschland), dove l’alternativa è la Germania all’Europa. Essere ciechi di fronte al fatto che per la prima volta nella sua storia l’Europa è vista dai suoi cittadini non come dispensatrice di benessere e ricchezza ma di povertà.

E poi essere oltre che ciechi sordi. Sordi al coro della comunità scientifica economica e in generale dei più prestigiosi think thank mondiali che a tempo debito ci avevano messo in guardia dai rischi dell’invertire l’ordine dei fattori temporali tra moneta e Stato. E oggi ci invitano a fare i necessari passi per mettere in sicurezza la moneta unica prima che venga spazzata via dalla storia, al pari di un qualunque serpente monetario, in difetto di un ancoraggio a istituzioni federali. Per chi non amasse Krugman, si leggano le lucide posizioni degli altri Nobel per l’economia, da Stiglitz ad Amartya Sen, da Pissarides a Mirless, fino al padre del neo-liberismo Friedman. Posizioni ben sintetizzate da un recente editoriale di Wolfgang Münchau sul Financial Times (“The divisions behind Europe’s declining influence”) nel quale si legge che la fortuna è il solo fattore che oggi tiene in piedi l’eurozona.

Fortuna che ha avuto le fattezze fisiognomiche di Mario Draghi che nel 2012, periodo in cui le scommesse sulla rottura del sistema erano dominanti, si è inventato un ruolo di prestatore di ultima istanza per la banca centrale di cui non vi era traccia nei trattati. Fortuna che accompagna la congiuntura di questa fase ma che, per definizione, non può durare in eterno. “Perché una politica basata sulla fortuna fallirà nel lungo periodo.” E alla fine, tale politica “in quanto insostenibile, verrà sostituita da qualcos’altro”.

E qual è la risposta politica che è emersa a questi scenari drammatici e al loro portato attuale di un’Europa complessivamente più povera, piagata da una devastante disoccupazione giovanile, in declino rispetto al resto del mondo? Incredibile ma vero. I contractual agreements tra paesi e Commissione Ue. Lo scambio, cioè, di un impegno per implementare le riforme strutturali dei governi verso una mancia di flessibilità sui bilanci o altri incentivi economici. Se il momento non lo sconsigliasse, si potrebbe anche riderci sopra a tale sproporzione tra mezzi e fine, tra situazione attuale e strumenti quantomeno progettati per porvi rimedio. Non c’è dubbio. L’unico progetto forte alternativo allo status quo in campo è quello degli Euro Unni, quello di chi vuole buttare a mare l’euro e con esso quel poco di Europa che si è costruito in 50 anni. ?a va sans dire, politicamente questo messaggio stravince per manifesta inferiorità dell’alternativa; per assenza della squadra avversaria. Ma la terapia è peggiore del male. A prescindere da tutto, dalla sua concreta somministrabilità, rianima cadaveri. Gli stati nazione continentali, feriti a morte dalla globalizzazione (i referendum per la secessione in giro per l’Europa ne sono solo una epifania). Inadatti a proteggere i livelli di benessere dei propri cittadini, incapaci di contenere il nuovo leviatano della finanza mondiale.

Oggi l’Italia ha meno dell’1% della popolazione mondiale e questo numero è declinante data l’esangue natalità nazionale in un mondo in impetuoso cambiamento in cui competono giganti. Il territorio in cui l’euro è in vigore attualmente ospita una popolazione di 329 milioni di europei (circa l’8% della popolazione mondiale). Se l’attuale dinamica del Pil globale dovesse continuare, nel 2050 (dopodomani), nessuna nazione europea entrerebbe nella classifica delle prime otto economie del mondo. Neanche la Germania che sarebbe al nono posto (stime PwC per il 2030 e il 2050 pubblicate da Il Sole 24 Ore)

Nessuno Stato europeo si salva da solo. Si provi solo a immaginare, qualora accadesse davvero, una Gran Bretagna fuori dall’Unione negoziare le sue politiche commerciali, oggi competenza esclusiva Ue, con la Cina. Bisogna però che qualcuno si faccia carico di dire agli stati europei, zombi che non sanno di essere morti, di fare spazio alla vita con un progetto ardito. Un progetto che dovrebbe partire da un manifesto inteso a disegnare, partendo da un bilancio federale, l’Europa del futuro. Ma per questo occorre la politica, quella alta. Ecco, appunto, qualcuno l’ha vista in Europa?







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