SPY FINANZA/ La “vittoria” delle banche che può scatenare un’altra crisi

- Mauro Bottarelli

Il ritorno della Grecia sul mercato dei titoli di stato e le decisioni del Comitato di Basilea sono due esempi di come nella finanza, spiega MAURO BOTTARELLI, non sia cambiato nulla

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Meglio tardi che mai, ammesso e non concesso che questa volta alle parole seguano i fatti. Parlando a margine del meeting primaverile del Fmi a Washington sabato scorso, Mario Draghi ha dichiarato che «a fronte di un ulteriore apprezzamento dell’euro sui mercati valutari, si renderebbero necessari ulteriori misure di stimolo monetario». Alleluia, visto che dal luglio 2012 l’euro è cresciuto del 14% contro il dollaro e questo ha certamente aiutato la creazione dello stato pre-deflattivo in cui ci troviamo oggi. Ma, come anticipato, Mario Draghi da almeno nove mesi minaccia interventi, salvo poi rintanarsi nell’immobilismo sperando che sia la Fed a sgonfiare la bolla globale. E tanto più che il presidente non ha per nulla fornito una soglia del tasso di cambio che potrebbe innescare un’azione da parte della Bce, limitandosi a dire che «i cambi sono uno degli elementi, non l’unico, che influisce sulla stabilità dei prezzi».

Staremo a vedere, tanto ormai siamo abituati alle cronache marziane che ci offre questo mercato da pazzi. Una cosa è certa: chi dà le carte sono sempre gli stessi e, crisi o non crisi, l’atteggiamento non cambia. Due esempi. Il primo riguarda ancora la Grecia e l’emissione del suo bond a 5 anni che ha fatto eccitare tanti osservatori: sapete chi ha comprato un terzo dei 3 miliardi di euro di debito messi all’asta? Hedge funds, mentre il rimanente è stato comprato da investitori da tutto il mondo, metà dei quali però, stranamente, con sede a Londra. Leggi, speculazione pura. Siamo alla follia pre-Lehman, si compra tutto ciò che garantisce un rendimento, tanto si sa che qualcuno interverrà in tempo.

Sabato fonti europee hanno subito gettato acqua sul fuoco dell’entusiasmo, dicendo chiaro e tondo che, nonostante l’ottima asta, Atene avrà ancora bisogno di aiuto finanziario per riuscire a onorare i pagamenti di interessi cui deve andare incontro nei prossimi tre anni: e siccome da qui al 2016 circa l’80% del debito greco sarà in mano alla Bce/Ue e a creditori ufficiali, capite da soli che bisogna garantire quei pagamenti. Insomma, la solita partita di giro. Ecco l’effetto placebo sui mercati: con tutto quel debito in mano a soggetti istituzionali, il rischio default è molto basso. Quindi, si compra col badile nonostante la ratio debito/Pil ellenica sia ancora al 178% e nonostante un haircut sui creditori privati di circa il 70% in termini effettivi. Ma come vi ho detto sabato, già il giorno dopo il bond a 5 anni ha preso 32 punti base di rendimento e perso 1,5 punti sul prezzo: sintomo che magari la domanda ci sarà anche stata, ma tanta parte era meramente speculativa e qualcuno in 24 ore ha già patito una perdita.

Chi? Facile, i fondi pensione e i fondi di investimenti che riguardano la gente come noi, gente normale, i quali si sono fiondati immediatamente a comprare dagli hedge funds. I quali, terranno un po’ di quella carta greca ancora nei portafogli e poi se ne libereranno offrendola a prezzo d’oro al parco buoi un minuto prima dell’arrivo della tempesta. Anche perché, dopo aver patito un calo del Pil del 26% dall’inizio della crisi a oggi, come dimostra il primo grafico, l’economia greca non è affatto in miglioramento, come mostra il secondo grafico, dal quale si desume che investimenti e importazioni di capital goods necessari per far ripartire il sistema sono letteralmente collassati.

Ma veniamo al secondo esempio. La conferma che il mondo della finanza non è cambiato di una virgola dal 2008 a oggi è arrivata giovedì pomeriggio, ma ai piani alti delle banche d’affari ne si vociferava da tempo: il Comitato di Basilea ha fatto retromarcia e ha reso noto attraverso il documento finale pubblicato proprio quel giorno che le regole più stringenti sul mercato dei derivati proposte lo scorso anno, di fatto, sono lettera morta. In particolare, quella che imponeva alle banche dal 1 gennaio 2017 di accantonare somme maggiori di denaro a garanzia del mercato degli swaps, settore che vanta un controvalore nozionale di 693 triliardi di dollari. Insomma, il settore più grigio del mercato, quello di fatto alla base della crisi finanziaria del 2008, può dormire sonni sereni e continuare a macinare utili e combinare disastri.

Cosa avrebbero previsto le regole rimangiate dai regolatori è presto detto: di base, ciò che veniva proposto era di incrementare i requisiti sul margine nel mercato swap del 1250%, percentuale che appare ovviamente spropositata, ma che va a inserirsi in un contesto dove – basti ricordare il caso Lehman – il fallimento di un controparte va a riverberarsi sull’intera catena del collaterale. Ora, invece, in base ai nuovi requisiti basterà accantonare almeno il 20% della cifra totale. Una vittoria su tutta la linea per le grandi banche che operano nel trading su derivati, un successo che parte da lontano e che è frutto di un’operazione di pressione lobbystica quasi senza precedenti.

Lo scorso settembre alcuni grandi soggetti bancari, tra cui l’International Swaps and Derivatives Association, scrissero una lettera al Comitato di Basilea nella quale definivano «eccessiva e non equa» la proposta, sottolineando come questa «potrebbe sfociare in requisiti di capitale che renderebbero il sistema di clearing non economico». Giovedì, la svolta. Nel documento finale reso noto dal Comitato di Basilea sulla supervisione bancaria, infatti, si richiede alle banche che operano come broker su operazioni swaps di accantonare molto meno denaro rispetto a quanto proposto un anno fa: si passa dal 1250% della bozza originaria ad appunto il minimo del 20% attuale. Quindi, dal 1 gennaio 2017 basterà depositare il 20% di risk-weighting presso un clearinghouse, cassa di compensazione che funge da terza parte di garanzia della transazione, e si potrà continuare a far crescere quella cifra folle che incombe sul sistema finanziario.

A confermare la vittoria delle banche, ci ha pensato prontamente Chris Cononico, presidente della GCSA, un sottoscrittore newyorchese che punta ad assicurare le clearinghouses per il mercato dei derivati: «Hanno (il Comitato di Basilea, ndr) avuto gente che ha potuto pensarci su un anno e hanno cambiato idea. Le banche dovrebbero essere molto felici. Di fatto, le regole proposte sono evaporate». E a godere di questa evaporazione sono in tanti, ma soprattutto sei soggetti, quelli che in base ai dati della US Commodity Futures Trading Commission, detenevano a fine 2013 i brokers su derivati più grandi: Goldman Sachs, JP Morgan Chase, Newedge Group, Morgan Stanley, Bank of America-Merrill Lynch e Deutsche Bank. La quale, da sola, sconta – come da ultimo bilancio e prima del netting – un nozionale lordo sui derivati di 55,6 triliardi di euro a fronte di depositi per 752,2 miliardi. Il Pil tedesco, per intenderci, è di 2,7 trilioni di euro. Non aggiungo altro.





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