PRIVATIZZAZIONI/ Eni ed Enel, 11 miliardi di pura follia

- Paolo Annoni

Negli ultimi giorni si è tornati a parlare di una cessione del 10% di Eni ed Enel da parte dello Stato. Un’operazione, spiega PAOLO ANNONI, che non avrebbe alcun senso

Renzi_PadoanR439 (Infophoto)

In merito ai rumours di cessione di quote di Enel ed Eni, ieri il ministro Padoan ha dichiarato che “c’è un programma di privatizzazioni” e che si stanno “valutando tutte le ipotesi”. In particolare, negli ultimi giorni la stampa ha riferito di un piano per cedere il 10% di Enel e di Eni inserendo un meccanismo di azioni con voto multiplo per permettere al governo di continuare a controllare le due società. Attualmente Eni ed Enel sono le due principali società controllate dal governo italiano e sono quotate alla borsa di Milano. L’operazione, ai prezzi di ieri, avrebbe un controvalore di circa 11,5 miliardi di euro.

Immaginiamo che il numero possa accendere l’immaginazione dei lettori; una tale quantità di soldi tutti e subito è allettante per chiunque e sicuramente la lista delle cose che si possono fare sarebbe abbastanza lunga. I titoli di giornale avrebbero sicuramente effetto. I numeri, come sempre, si possono usare per dire quasi qualsiasi cosa e vanno sempre contestualizzati. L’operazione si deve giudicare secondo due aspetti, uno finanziario e uno strategico competitivo.

Dal punto di vista finanziario il ricavato della cessione del 10% di Enel e Eni rappresenta circa lo 0,5% del debito pubblico italiano. La variazione sarebbe decisamente poco significativa e non cambierebbe minimamente la sostanza del problema. Puntare a ridurre nel più breve tempo possibile lo stock di debito non è una strategia vincente e nemmeno le politiche di austerity, che puntavano a ridurre il deficit, sono state particolarmente lungimiranti. Oggi il mercato non è in nessun modo spaventato dello stock di debito, altrimenti non si spiegherebbe come mai il decennale italiano renda così poco in un contesto economico che si può tranquillamente definire drammatico.

Il mercato ha smesso di preoccuparsi del debito italiano per due motivi: il primo è dovuto all’azione delle banche centrali e il secondo alle attese di miglioramento economico e inizio della ripresa. Se il mercato cominciasse a nutrire dubbi su questi due punti i problemi diventerebbero importanti. La cessione di Enel ed Eni è oggi ininfluente per i mercati a patto che l’economia italiana cominci a migliorare e a patto che la Bce continui ad adottare politiche espansive.

Sempre dal punto di vista finanziario non si capisce perchè si dovrebbero vendere azioni che in termini di dividendo rendono circa il 3% (Enel) e il 6% (Eni) per dividendi totali, contando il 10% di Eni e Enel, di circa quasi 600 milioni di euro per evitare un debito che oggi costa a dieci anni il 2,94% e cioè circa 350 milioni. In pratica, lo Stato vende azioni che rendono 600 milioni di euro all’anno per evitare un debito che costa 350 milioni all’anno. Non occorre essere degli esperti di finanza per capire che la convenienza finanziaria di questa operazione è, almeno, discutibile. Certo, con 11,5 miliardi subito si potrebbero fare cose che rendono di più, ma in questi mercati l’ultimo dei problemi è trovare qualcuno disposto a finanziare a debito progetti minimamente sensati. Società industriali italiane quotate negli ultimi mesi hanno piazzato debito senza nessun problema nonostante qualche legittima preoccupazione sulla sostenibilità di medio-lungo termine dei debiti.

Nei mercati di oggi non cambierà nulla dire che il debito pubblico italiano è il 132% del Pil o il 131,5% quando l’economia cresce dello zero virgola con la disoccupazione record. Il numero che impressionebbe favorevolmente gli investitori non è il numeratore, il debito, ma il denominatore, il Pil e la sua crescita. Queste considerazioni sono davvero troppo facili da fare per pensare che non siano note al ministro dell’Economia.

Il secondo macro-tema è quello dell’importanza strategica di Enel ed Eni in un mondo in cui l’approvvigionamento energetico diventa sempre più complesso, politicamente ed economicamente, e sempre più un fattore competitivo. L’Italia, come noto, non ha petrolio, gas, ha bandito il nucleare (ma lo compra dalla Francia) e deve affrontare opposizioni di comitati di ogni ordine e grado persino per installare una pala eolica al largo della più brutta e anonima costa italiana. Il meccanismo del voto multiplo è una difesa molto più fragile di una partecipazione superiore al 20%. Le leggi si possono cambiare e contro i regolamenti ci si può appellare e vincere; l’anonimo fondo internazionale potrebbe spingere per cambiare il meccanismo, appellarsi all’Europa o a qualsiasi altro ente o tribunale italiano e non e sperare di vincere. Con il 30% si può salire al 49,9% senza lanciare un’opa rendendo potenzialmente costosissima qualsiasi operazione ostile.

Blackrock in pochi mesi ha comprato il 5% di una lista considerevole di società italiane che per capitalizzazione stanno molto in alto nella classifica della borsa di Milano. Non è assolutamente fantafinanza ipotizzare una compagine di fondi che detenga un 20/30% di Enel o Eni. Chi deciderebbe in caso di disaccordo con il governo italiano diluito sotto il 30% a un livello a cui il controllo su una società quotata è oggettivamente molto più labile è una domanda che occorrerebbe porsi. La cessione del 10% di Enel ed Eni ha pochissimo senso finanziario e, se possibile, ancora meno strategico.

Nonostante questo, nonostante questi mercati e le ultime vicende geo-politiche, se ne parla ancora come della priorità numero uno per il rilancio dell’economia italiana dato che, per ora, di riforme non se ne sono viste. Pensare male diventa quasi inevitabile. 





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