SPY FINANZA/ Russia e Ucraina, la “bomba” che rimbalza sui mercati

- Mauro Bottarelli

C’è tensione sui mercati riguardi la situazione ucraina. Kiev rischia la bancarotta, mentre la Russia non riesce a trovare capitali per le sue imprese. L’analisi di MAURO BOTTARELLI

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La situazione in Ucraina sembra non voler evolvere né in un senso, né nell’altro, tanto che ieri, seppur con colpevole ritardo, la diplomazia internazionale ha cercato una soluzione alla crisi ucraina a Berlino, dove si sono incontrati i ministri degli Esteri di Mosca, Kiev e quelli francese e tedesco (Italia, al solito, non pervenuta, nonostante i danni che la crisi ucraina sta già creando alle nostre aziende che esportano verso la Russia) nella speranza di trovare una via che metta fine ai combattimenti nell’est della Repubblica ex sovietica e fare in modo che in quei territori arrivino aiuti necessari e urgenti. Ma c’è dell’altro che spiega l’interventismo tedesco: i timori di un’escalation militare e la conseguente corsa verso beni rifugio ha infatti spedito il rendimento del Bund decennale allo 0,97% venerdì, dopo che Kiev aveva annunciato la distruzione di parte di un convoglio russo che avrebbe sconfinato in territorio ucraino. Addirittura, il titolo biennale ha virato nettamente in territorio negativo a livello di rendimento, nei fatti dicendo chiaramente alla Germania che gli investitori sono felici di pagarle qualcosa purché questa tenga da conto i loro soldi e li protegga dalle turbolenze geopolitiche.

C’è tensione sui mercati, sottotraccia ma sempre maggiore. L’indice Dax a Francoforte è letteralmente crollato al -1,4% negli ultimi minuti di contrattazioni venerdì, proprio sulla scorta delle notizie che giungevano dall’Ucraina, mettendo a segno una correzione ormai tecnica del -10% dall’inizio di luglio. Il Vix, l’indicatore della volatilità, negli stessi istanti è salito dell’11%, mentre il rendimento del decennale statunitense è sceso a 2,33%, il minimo da 14 mesi e l’indice Dow Jones è crollato di 114 punti nei primi minuti di contrattazione, trainato al ribasso dal tonfo dei titoli di aziende russe quotate a New York. Il tutto in un contesto, quello europeo, di fatto di nuovo in recessione, aggravata dalla deflazione che ormai si è palesata in tutta la cosiddetta “periferia”: Marcel Fratzscher, capo del German Economic Research Institute (Diw) ha messo in guardia tutti dal rischio sempre più netto di recessione tecnica, dopo il crollo del 10,4% degli ordinativi manifatturieri tedeschi verso il resto dell’eurozona.

Per Gabriel Sterne dell’Oxford Economics se si dovesse arrivare a un conflitto su larga scala tra Russia e Ucraina il danno per il Pil dell’eurozona sarebbe quantificabile con un calo del 2% nei prossimi due anni a causa dell’interruzione degli scambi commerciali e dei canali finanziari, con una contrazione per il 2015 di circa lo 0,5%: «I mercati sono stati troppo sanguigni verso l’intera crisi che stiamo vivendo e ora arriva il conto». Ma c’è un altro grosso rischio, sottolineato sempre da Sterne, ovvero un possibile default ucraino sul suo debito estero.

Per Sterne, l’economia ucraina dovrebbe contrarsi dell’8% quest’anno e le possibilità di un default sono ora al 50%, con l’aggravante del domino rappresentato dal fatto che la gran parte di quel debito è detenuto da banche e istituzioni russe. Un quadro che, nello scenario peggiore, potrebbe propagare shock verso tutto il sistema finanziario dell’eurozona e altro: Franklin Templeton, uno dei più grandi soggetti finanziari per gestione di assets, aveva in portafoglio 7,3 miliardi di dollari di bond ucraini alla fine del 2013, posizione che riteneva non pericolosa poiché Kiev «era in ottima condizione economica e con ottime relazione con la Russia». Si è visto come è andata a finire. E poi guardate il grafico a fondo pagina: la hrivna, la valuta ucraina, è crollata del 40% da gennaio a oggi, qualcosa di devastante per governo e aziende che si sono finanziati sui mercati di capitale in valuta estera per qualcosa come 145 miliardi di dollari, a fronte di un aiuto da parte del Fondo monetario internazionale di soli 18 miliardi di dollari e che ora devono ripagare quel debito con una valuta che vale la metà di quando ottennero il credito.

Il gruppo agricolo Mriya ha già saltato alcuni pagamenti sul suo debito e ha richiesto la ristrutturazione di obbligazioni per 650 milioni di dollari, ma molte altre aziende sono sull’orlo del precipizio e rischiano di seguire questa strada: per Tim Ash della Standard Bank, «la situazione non può che peggiorare, ma andrà valutata caso per caso. Alla fine il Fmi potrebbe imporre un ristrutturazione del debito in stile greco, quindi con haircut, per i detentori di debito pubblico».

C’è poi il fronte russo, con un’economia ormai completamente ferma, se non addirittura congelata e con la minaccia di un calo del prezzo del petrolio, oggi a quota 103 dollari al barile dai 115 di inizio anno: per Chris Weafer della Macro Advisory, «se il prezzo scenderà sotto quota 100 dollari al barile, allora il calo potrebbe autoalimentarsi verso il basso ancora di più e la Russia finirà sotto una pressione davvero seria e grave». I continui aumenti dei tassi di interessi praticati dalla Banca centrale nel tentativo di difendere il rublo, poi, hanno bloccato il flusso di credito verso le piccole e medie aziende e portato a un crollo del 23% nella vendita di automobili nel solo mese di luglio: è in atto una contrazione generalizzata, con il rischio di contagio a causa delle sanzioni che stanno portando le banche statunitensi ed europee a tagliare qualsiasi tipo di esposizione verso la Russia, vista ormai come un investimento ad alto rischio.

Da inizio luglio nessuna azienda russa è riuscita a finanziarsi con prestiti in dollari, yen, euro o sterline: soltanto Lukoil è riuscita a ottenere un prestito da 1,5 miliardi di dollari da JP Morgan ed Evraz per 500 milioni, praticamente noccioline visto il livello di cui stiamo parlando ma ormai le porte di stanno chiudendo per tutti. Il gigante petrolifero Rosneft ha richiesto un prestito da 40 miliardi di dollari al fondo sovrano russo ma non per restare sul mercato, bensì solo per pagare il debito in scadenza nei prossimi mesi. Certo, quel denaro non serve tutto e subito ma per Weafer la situazione è di quelle pericolose: «Anche se non c’è l’urgenza immediata, Rosneft si è messa in coda e cerca di prenderne la testa. Se le sanzioni andranno avanti, magari arrivando fino all’inizio del 2015, allora quella coda diventerà infinita. Ma non potranno esserci soldi sufficienti per tutti, soprattutto con un rublo in caduta libera e l’economia ferma, se non in recessione».

Insomma, stiamo giocando a volano con una bomba a mano senza spoletta: la speranza è che a Berlino si ottenga qualche risultato concreto. Altrimenti, tutti avremo un conto da pagare. Anzi, tutti tranne uno. Come al solito, d’altronde.

 







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