BORSA ITALIANA IN ROSSO/ Ecco cosa serve per “frenare il crollo”

- Paolo Annoni

Ieri è stata un’altra giornata pesante per la borsa italiana e per lo spread. PAOLO ANNONI prova a spiegarci cosa servirebbe per provare a far invertire rotta ai mercati

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La cronaca delle giornate di borsa continua, purtroppo, a non regalare novità; la borsa italiana ha perso dall’inizio dell’anno oltre il 30% e non sembra esserci alcun accenno di inversione dato che anche ieri i cali sono proseguiti portando il listino ai minimi degli ultimi due anni e mezzo. I ribassi diffusi tra le altre borse europee e tra le maggiori piazze globali sono una magrissima consolazione perché l’Italia ha pesantemente sottoperformato in termini di andamento economico negli ultimi anni e perché ci sono alcuni elementi di criticità specifici tra cui le fragilità del sistema bancario e il debito pubblico. L’unica “novità” degli ultimi giorni è un allargamento dello spread Btp-Bund, che seppur ancora minimo, non si vedeva da quasi un anno e che rischia di mettere a nudo tutte le contraddizioni interne all’Europa e tutta la criticità della posizione italiana.

Le domande a cui si vorrebbe rispondere sono almeno due: non solo quanto ancora si possa scendere e fino a dove si possa arrivare, ma soprattutto cosa debba accadere perché si riesca a mettere fine a una situazione che si sta ormai evidentemente avvitando. Ci sono alcuni problemi “globali” ormai noti: il rallentamento dell’economia cinese e la tenuta del suo sistema finanziario, e il crollo dei prezzi del petrolio con le sue conseguenze sui mercati finanziari e sui Paesi produttori; l’Europa in questo contesto, già complicato, è però un focolaio di volatilità finanziaria che offre agli investitori interrogativi a cui difficilmente si può rispondere senza farsi prendere da un po’ di panico.

L’incremento dello spread è innanzitutto una sfida alla Bce, che in teoria dovrebbe avere messo al sicuro i titoli di stato europei, inclusi quelli dell’Europa periferica. È comprensibile che in una fase di aspre polemiche e divisioni all’interno dell’Europa, in cui non mancano le minacce di fare da soli, qualcuno cominci a chiedersi quanto sia forte e ampio il mandato di Draghi, soprattutto se il mercato dovesse di nuovo mettere sotto pressione i bond dell’Europa periferica, Italia in primis. Il sistema bancario italiano, tra l’altro, è stato palesemente messo sotto attacco con la complicità dei partner europei che oltre tutto non hanno mostrato alcuna particolare flessibilità sulla questione delle sofferenze e della bad bank. I dubbi sulla crescita in Europa diventano ogni giorno più difficili da ignorare.

Infine, l’Italia non solo ha mostrato molte mancanze nella capacità di gestione dell’emergenza bancaria, ma pretende di ottenere flessibilità e credito internazionale mettendo sul piatto della bilancia il Jobs Act, fatto inghiottire a un comparto privato ormai disposto a tutto, e tutte le contraddizioni di un sistema burocratico amministrativo che schiaccia qualsiasi ripresa; sul piatto della bilancia finiscono anche regali elettorali a destra e a manca e l’inserimento, in bolletta elettrica, di una tassa per una televisione di stato con decine di canali e migliaia di dipendenti. Non esattamente il colpo di immagine che servirebbe in questo momento quando si tenta di dimostrare che “l’Italia ha fatto le riforme” a conclusione di un anno con il Pil cresciuto dello zero virgola e la disoccupazione a due cifre.

Ai mercati servirebbe come minimo un altro “whatever it takes” (a qualunque costo) di Draghi condiviso a livello europeo. Servirebbe ancora, come minimo, un po’ di flessibilità per facilitare la pulizia del sistema bancario italiano e un cambiamento delle politiche economiche e fiscali europee che cominci a includere la crescita. Servirebbe che l’Italia facesse almeno quelle riforme a costo zero, il taglio della spesa improduttiva e la spending review, che finora sono state costantemente evitate e che trovasse una soluzione immediata ai problemi più gravi del suo sistema bancario.

Lo scenario attuale è però completamente opposto; la competizione tra stati in Europa è un gioco senza esclusione di colpi che lascia esposti i soggetti più fragili e che non risolve nessuno dei problemi strutturali e in cui non viene contemplata la crescita complessiva. Un gioco che finisce solo con le concessioni politiche ed economiche a danno dei soggetti fragili e a vantaggio di quelli forti e che lascia strascichi politici preoccupanti; un gioco in cui è ormai evidente che non tutti sono uguali.

In un mercato pesantemente negativo ieri Telecom Italia, con il capitale a maggioranza francese, brillava come uno dei pochissimi titoli in rialzo; tra le molte colpe europee e globali l’Italia è meglio che pensi anche alle sue, perché tra riforme discutibili e incredibili autogoal industriali non ha dato finora l’impressione di particolare bravura nel tutelare i propri interessi.





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