SPY FINANZA/ Così la Cina può far “ripartire” i mercati

- Mauro Bottarelli

C’è grande attesa per il G-20 dei ministri delle Finanze in programma il prossimo fine settimana a Shanghai. E ancor più per le mosse della Banca centrale cinese, spiega MAURO BOTTARELLI

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Come avrete notato, dai tonfi di fine gennaio-inizio febbraio, ora il mercato pare essersi stabilizzato. Certo, ci sono ancora chiusure in negativo, ma non i crolli e, a voler essere sinceri, visto lo stato di salute dell’economia globale, come anche l’Ocse ha fatto recentemente notare, quei cali sono non solo fisiologici ma necessari, al netto dei multipli di utile per azione degni di Qualcuno volò sul nido del cuculo. I più attenti di voi ricorderanno come il 3 febbraio scorso nel mio intervento quotidiano mettessi in guardia da una cosa: ovvero, il fatto che il mondo si trovi in balia delle “4 C”, criticità tali per risolvere o tamponare le quali il mercato brama un intervento massiccio delle Banche centrali. Qual era la mia conclusione? Per ottenere quell’intervento i mercati dovevano crollare un po’, serviva un grande spavento globale, un’eco del 2008 che rompesse indugi e spazzasse via polemiche, offrendo copertura di politica emergenziale a tali atti.

Giova ricordare cosa siano le “4 C”, ovvero Cina, commodities, credito e consumi, fattori cardine per riattivare gli animal spirits sia del settore corporate che dei consumatori. E dove si può dare risposta a queste criticità? Al meeting che si terrà i prossimi venerdì e sabato a Shanghai e che vedrà riuniti i ministri delle Finanze del G-20, oltre ai banchieri centrali. La storia sta per conoscere un nuovo avvenimento spartiacque? Tra qualche anno parleremo di un fantomatico “Accordo di Shanghai” come la pietra miliare per l’economia e la finanza globale? Chissà, di certo c’è che un rapido miglioramento nella condizione delle “4 C” appare difficile, quindi cosa potrebbero decidere i regolatori del mondo a Shanghai? Anzi, cosa si attenderebbe il mercato da parte loro?

Primo, una netta svalutazione una tantum dello yuan cinese. Secondo, l’annuncio da parte della Fed dell’apertura di swap lines o altre misure di sostegno del sistema finanziario per evitare un contagio diretto verso i mercati emergenti, dato che le mosse di Federal Reserve e ultimamente di Bank of Japan non hanno fatto che aumentare la crisi di liquidità in dollari per Paesi molto indebitati, operando di fatto una margin call sul biglietto verde. Terzo, un annuncio da parte del Tesoro statunitense di misure per ottenere la stabilità del dollaro, al fine di aiutare a uscire dalla spirale mortale in cui si trovano la manifattura Usa, i mercati emergenti e il petrolio. Quarto, Usa, Germania, Regno Unito e Francia prometteranno stimolo fiscale per aumentare gli investimenti pubblici, soprattutto in infrastrutture di alto livello e qualità.

E il mercato, va riconosciuto, ci ha messo del suo per spaventare per bene tutti con i suoi crolli e la sua liquidità bruciata: il primo grafico a fondo pagina ci mostra come il mercato equity globale negli ultimi sei mesi abbia perso 16,5 triliardi di capitalizzazione e che oggi sia più povero di 6 triliardi – o del 10% – dai massimi del novembre 2007. Il tutto in 6 mesi! Bene, Bank of America nel fine settimana ci ha offerto una chiave di lettura in più e un’indiretta conferma che, magari non a Shanghai ma comunque a breve, ci sarà un imminente intervento da parte di una delle principali Banche centrali. Lo dimostra empiricamente il secondo grafico, dal quale desumiamo che ogni volta che i titoli finanziari a livello globale comparati ai Treasuries Usa sono calati ai livelil attuali, rimandando segnali deflazionistici, le Banche centrali sono intervenute con operazioni non ortodosse di politica monetaria, sia con i 3 cicli di Qe della Fed che con quello della Bce dello scorso marzo.

Perché intervenire ora? Per due ordini di problemi. Primo, l’economia statunitense, ben lungi dalla ripresa che ci hanno raccontato fino al dicembre scorso, è ora intrappolata nella classica sindrome da Riccioli d’oro. Ovvero, come le tazze della favola di Robert Southey erano troppo calde o troppo fredde, così l’economia statunitense non è abbastanza forte per sostenere il Pil globale e i mercati, ma nemmeno talmente debole da giustificare una risposta coordinata delle Banche centrali. Secondo, la retorica dei policy-makers a livello globale, i quali hanno speso mesi e anni prima a dire che il loro intervento avrebbe risolto tutto e poi a buttare la croce addosso alla debolezza globale per giustificare i fiaschi delle proprie economie nazionali o di area, come nell’Ue o nel Giappone dell’Abenomics. Insomma, serve un tonfo, una percezione di rischio per rimuovere l’ostacolo politico e mediatico a un nuovo intervento massiccio. E in un mondo dove l’economia è percepita e confusa con il mercato, questa interpretazione, questa narrazione significa una cosa sola: un crollo azionario è necessario e sufficiente per innescare un nuovo rally, visto che il fallimento politico viene internalizzato e si può operare nuovamente in base a nuovi codici ed emergenze.

Bene, le occasioni non mancano. A parte il G-20 di Shanghai del prossimo fine del 26 e 27 febbraio, nell’arco di pochi giorni abbiamo la riunione del board della Bce del 10 marzo per la decisione sui tassi e l’implementazione del Qe, il meeting della Bank of Japan del 15 marzo e il Comitato monetario (Fomc) della Fed del giorno seguente, 16 marzo. Al netto di tutto, la mossa a mio avviso potrà essere compiuta solo da Bank of China o Bce, visto che il Giappone ha appena mandato in negativo i tassi di deposito schiantando il Nikkei e la Fed non può permettersi un taglio dei tassi proprio adesso che l’inflazione è tornata a salire, come mostrano i dati di venerdì scorso e le richieste di prima disoccupazione sono arrivate ai minimi da 43 anni. In condizioni simili, al netto di come le si è raggiunte, i tassi di alzano, non si abbassano.

Una cosa è certa, un accordo al G-20 di Shanghai, quasi un deja vu dell’Accordo del Plaza di trent’anni fa, potrebbe essere un ottimo viatico al mercato in attesa di una mossa ufficiale, magari da parte dell’Eurotower. Ma non solo. Se infatti il bazooka di Draghi appare limitato, a meno che non varchi il Rubicone dell’acquisto di debito corporate (bancario), Pechino dopo mesi passati a difendere il cambio dello yuan bruciando riserve al fine di tamponare le fughe di capitali, potrebbe decidere che sia giunta l’ora per una massiccia svalutazione della sua moneta e quindi un reset per la stabilità della politica monetaria globale, anche se solo per alcuni mesi. Di converso, se dal G-20 non arriveranno notizie in grado di tranquillizzare i mercati, prepariamoci a una nuova ondata di sell-off azionarie a livello globale. Ma io sono quasi certo che sarà la Cina ha fare la grande mossa, anche perché come ci mostra questo grafico, qualcosa occorre sia fatto per invertire una tendenza che ha visto Pechino creare mezzo triliardo di nuovo debito nel solo mese di gennaio!

 

Cosa farà? Con una mossa più simbolica che operativa, sabato Pechino ha licenziato il capo dell’Ente regolatore dei mercato (Csrc), quello Xiao Gang che la scorsa estate impallidì di fronte alle accuse mossegli dal presidente, Xi Jinping, per la pessima gestione mediatica dei crolli azionari e per l’incapacità di implementare un circuit breaker che li interrompesse. Un mese fa, Pechino negò l’intenzione di silurarlo, dicendo che «questa informazione non è conforme ai fatti», ma proprio in vista del G-20 potrebbe aver scelto di offrire ai mercati su un piatto d’argento la testa del più classico capro espiatorio, inviando in contemporanea il segnale sottinteso di una svalutazione dello yuan alle porte o quantomeno non più esclusa a priori. Anche perché ormai nelle sale trading nessuno più guarda nulla che non sia il cosiddetto chinese spread, ovvero il misuratore della differenza tra l’andamento dei due yuan oggi in circolazione.

Il primo, detto spot o onshore, è quello stabilito dalla Banca centrale cinese che lo controlla nell’ambito di una banda di oscillazione con cambio semi-rigido, mentre il secondo è lo yuan offshore quotato a Hong Kong e libero di fluttuare sui mercati in base alle regole canoniche della domanda e dell’offerta. Ogni mattina, si guarda a quel differenziale e si spera che non salga sopra quota 13 toccata durante gli schianti di Borsa della scorsa estate. Quando si amplia, infatti, significa che i mercati si aspettano da un giorno all’altro che la Banca centrale cinese svaluti il cambio ufficiale (spot) nei confronti del dollaro, adeguandosi a quanto già si aspetta il mercato. Lo spread in rialzo, infatti, traduce in numero l’anticipazione del deprezzamento sul mercato di Hong Kong, muovendo al ribasso nei confronti del dollaro la quotazione dello yuan offshore.

E se quello spread esplodesse dopo il G-20, costringendo Pechino a chiudere la pantomima e operare? Penso sia quanto tutti auspichino, Fed in testa. Staremo a vedere.





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