PREZZO PETROLIO/ Così l’Opec rischia di andare fuorigioco

- Augusto Lodolini

La guerra dei prezzi del petrolio continua, ma lo scenario futuro indica una progressiva perdita di importanza dell'Opec, che ha finora dominato il mercato. AUGUSTO LODOLINI

Petrolio_Trivella_R439 Immagine di repertorio (Foto: LaPresse)

Ci risiamo con il tormentone Opec: al prossimo vertice ci sarà il tanto sospirato blocco della produzione, con conseguente ripresa dei prezzi? È la speranza che ha contrassegnato tutte le ultime riunioni dell’organizzazione e regolarmente andata delusa, poiché l’Opec ha continuato ad aumentare la propria produzione, soprattutto per merito, o colpa, dell’Arabia Saudita. Aspettative simili si sono riattivate in vista del prossimo summit di settembre in Algeria, anche se molti commentatori rimangono scettici.

Qualcosa sta tuttavia cambiando e proprio nel ruolo dell’Opec, finora arbitro dei prezzi, dato che controlla più di un terzo della produzione mondiale, con l’Arabia Saudita che rappresenta a sua volta quasi un terzo della produzione dell’organizzazione. Questo ruolo è ora minacciato dagli Stati Uniti e dal loro petrolio di scisto e i sauditi hanno reagito scatenando una guerra dei prezzi nel tentativo di mettere fuori mercato lo shale oil americano. Gli attuali bassi prezzi sono però un problema anche per diversi membri della stessa Opec, che chiedono di diminuire, o almeno bloccare, la produzione. 

Particolarmente attivo in questa direzione è il Venezuela, fortemente dipendente dal petrolio, la cui economia versa in condizioni disastrose con risvolti drammatici nella vita del Paese. Il drammatico crollo dei prezzi da più di 100 dollari al barile del 2014 ai 30-40 del 2015, ha messo molti Stati produttori nell’impossibilità di far quadrare i propri bilanci. Per il Venezuela sarebbe necessario un prezzo attorno ai 100 dollari e dovrebbe essere superiore agli 80 dollari per la maggior parte dei Paesi. La stessa Arabia Saudita ha dovuto dar fondo alle proprie riserve finanziarie e sta ora affrontando una crisi interna, per il momento pagata soprattutto e in modo drammatico dai lavoratori immigrati. 

I sauditi sembrano aver sottostimato la capacità di resistenza dell’industria petrolifera statunitense, pensando che la strategia dei prezzi bassi, consentita dai loro contenutissimi costi di estrazione, avrebbe richiesto tempi abbastanza brevi. Invece, malgrado le forti tensioni finanziarie che stanno mettendo a rischio molti produttori, lo shale oil si è mostrato più forte di quanto si potesse supporre. 

La situazione si sta quindi complicando anche per l’Arabia Saudita. L’aumento dei prezzi conseguente a un blocco o calo della produzione verrebbe incontro alle sue crescenti difficoltà finanziarie, ma rischierebbe di rimettere sul mercato produttori di shale oil “dormienti” agli attuali livelli di quotazioni del petrolio. 

La messa in produzione di questi pozzi è infatti relativamente rapida e non a caso alcuni commentatori ipotizzano la progressiva minore importanza dell’Opec nella formazione dei prezzi a favore dei produttori americani. Sarebbero questi i nuovi “swing producers“, cioè produttori dotati della necessaria flessibilità per affrontare la variabilità del mercato e in grado di influenzare in modo decisivo la formazione dei prezzi. Cioè il ruolo finora ricoperto dall’Opec e, in particolare dall’Arabia Saudita. Inoltre, all’interno dello stesso cartello, i sauditi devono fronteggiare l’opposizione di Iran e Iraq, e quanto prima della Libia, intenzionati ad aumentare la loro produzione fino ai livelli antecedenti alle sanzioni, nel primo caso, o ai conflitti interni negli altri due.

Occorre tener conto, infine, che tra i motivi del recente rialzo dei prezzi a 50 dollari per barile vi sono le diminuzioni di produzione del Canada, a seguito di disastrosi incendi, e della Nigeria, per la situazione di emergenza derivante dagli attacchi dei Niger Delta Avengers. Il Canada ha già ripreso la propria produzione e la Nigeria cercherà di fare altrettanto, a dimostrazione che un blocco della produzione potrà avvenire solo con un difficilissimo accordo pressoché globale tra i produttori.

A meno di eventi catastrofici è impensabile un ritorno dei prezzi ai livelli del 2014 e, rispetto agli attuali 40-50 dollari per barile, gli obiettivi ritenuti possibili si situano in un’area tra i 60 e gli 80 dollari per barile. Elemento fondamentale in queste previsioni è la possibile ripresa economica e la conseguente maggiore quantità di petrolio richiesto. Le stime sia dell’Opec che dell’Iea, l’Agenzia internazionale per l’energia, ritengono possibile un sostanziale riequilibrio tra domanda e produzione già dall’anno prossimo.

In questo quadro va aggiunto un fattore che non ha finora avuto la dovuta risonanza: il rilevante taglio degli investimenti del settore. I bassi prezzi del petrolio, e del gas naturale, non solo hanno danneggiato pesantemente i bilanci degli Stati produttori, ma hanno mandato in passivo i bilanci delle società operanti nel settore, con prezzi di vendita sempre più incoerenti con i costi di produzione. Oltre a una consistente e dolorosa riduzione dell’occupazione, ciò ha causato la netta diminuzione degli investimenti in ricerca e sviluppo, accompagnata dalla sospensione di attività di ricerca già iniziate ma ritenute non più profittevoli. Ciò porterà all’impossibilità di sostituire appieno la produzione dei giacimenti in esaurimento, creando uno sbilanciamento tra domanda e produzione, con conseguente crescita nei prezzi del petrolio. Un evento che diversi analisti ritengono potrebbe verificarsi in un futuro non tanto lontano.

In questo scenario, accanto alla forza finanziaria, saranno determinanti l’eccellenza tecnologica e la flessibilità e capacità di adattamento a situazioni sempre più eterogenee. Qualità, quest’ultime, ampiamente dimostrate da società italiane del settore, come Eni e Saipem, deboli semmai sotto il profilo finanziario e per l’appoggio che possono aspettarsi dai nostri erratici governi. 





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