LUXOTTICA/ Un’altra fuga (in Francia) dell’industria italiana

- Paolo Annoni

Essilor e Luxottica si fonderanno. Ma quel che nessuno spiega, dice PAOLO ANNONI, è che di fatto l’azienda francese acquisterà quella italiana. Un ennesimo caso già visto

Luxottica_R439 Luxottica

Ieri mattina Essilor, azienda francese che produce lenti, ha annunciato un’offerta pubblica di scambio su Luxottica; al termine dell’operazione Luxottica verrà delistata e ci sarà una sola società, con un nome nuovo Essilor Luxottica, francese e quotata a Parigi, il cui principale azionista sarà Leonardo Del Vecchio, già fondatore e principale azionista della società italiana acquisita Luxottica. Si parlava da anni di una possibile fusione tra Essilor e Luxottica e le ragioni industriali sono facilmente intuibili. Luxottica, per la cronaca, è il leader globale incontrastato nella produzione di montature per occhiali e, oltre ad avere accordi di licenza con primarie società del lusso, ha in portafogli brand propri primari (Ray-Ban giusto per dirne uno), oltre a catene di distribuzione in mezzo mondo. Le mancava la tecnologia della produzione delle lenti, un oligopolio di pochi nomi non replicabile, che probabilmente era diventata ancora più desiderabile in un mondo in cui si comprano montature di occhiali “entry level” su internet; una sfida competitiva che è un mix di nuovi canali e nuovi prodotti per un consumatore che è anche meno disposto a spendere.

Di questa operazione si può dire tanto e si può descrivere in molti modi: creazione di un grande gruppo europeo, fusione, un azionista di maggioranza italiano, ecc. Noi scegliamo il titolo che ogni investitore globale ha trovato su Bloomberg ieri mattina: Essilor compra Luxottica per 24 miliardi di euro. Oltre i tecnicismi dell’operazione, un’offerta di Essilor su Luxottica, oltre al nome, Essilor Luxottica, il “nuovo” gruppo da un punto di vista giuridico coinciderà banalmente e semplicemente nient’altro che con la stessa Essilor. Non c’è nessuna nuova società, né nessun nuovo gruppo. È la società francese che compra quella italiana mantenendo, ovviamente, la sua carta d’identità con tutto quello che ne consegue da un punto di vista legale, fiscale e sostanziale. Il “nuovo gruppo” non sarà quotato a Milano, che perde una delle sue società più grandi, ma solo a Parigi e poi, forse e in un secondo momento, a New York.

L’italianità del nuovo gruppo, che da un punto di vista legale non esiste, rimane legata al filo del suo principale azionista che ha ottantuno anni e nessun figlio in posizioni apicali e che ha accompagnato la sua creatura, Luxottica, all’approdo industriale e finanziario finale in una società francese con sede e quotazione a Parigi. Nessuna ricostruzione può cancellare questi dati di fatto e può convincerci che questa nuova creatura non sarà giustamente percepita da tutti, investitori inclusi, come parte del sistema industriale francese. Nessuno in America, giustamente, si sogna di pensare che FCA sia italiana e non americana perché gli Agnelli-Elkann sono di Torino; e se Trump imponesse la sede in America per vendere auto agli americani scommettiamo che sarebbe questione di settimane prima di un cambio di sede. Se un imprenditore asiatico comprasse Piaggio la lasciasse quotata a Milano e con la sede legale e fiscale in Italia, Piaggio rimarrebbe italiana e sarebbe semplicemente una società italiana con un socio cinese. Nessuno pensa che Editoriale l’Espresso (La Repubblica) sia italo-svizzera perché De Benedetti ha la cittadinanza elvetica. Scommettiamo che la Francia accoglierà a braccia aperte questo imprenditore italiano che abbandona Milano, si accasa a Parigi e le consegna un leader globale senza intaccare di un millimetro la “francesità” formale, reale e sostanziale di Essilor che anzi fa per due; una notizia che in termini di immagine vale più di dieci enciclopedie di articoli di giornale sui “nuovi gruppi europei”.

Assistere a questa ennesima cessione di imprenditori italiani a società estere, e in particolare francesi, a cui a questo punto chiederemmo di nominare un viceré per l’Italia, è uno shock perché Del Vecchio con la sua storia è stato il sinonimo dell’imprenditore italiano di successo che crea dal niente o quasi una società leader globale da decine di miliardi di euro senza particolari supremazie tecnologiche. Da un punto di vista di immagine è il colpo finale di una ormai lunghissima teoria di cessione che ha la proporzione dell’esodo biblico; in Italia tutti vendono e nessuno in Italia si preoccupa di impedirlo o quanto meno di contenere i danni. Una delle prime tre società industriali quotate a Milano lascia armi e bagagli e non solo nessuno dirà niente, ma dovremo anche sorbirci articoli surreali e grotteschi sulla creazione di gruppi europei: oltre al danno anche la beffa.

La letteratura sul rilancio dell’Italia si scontra con la fortissima impressione che non ci creda più nessuno nemmeno quelli, non è certamente il caso di Del Vecchio, che con gli ex monopoli pubblici hanno fatto finora fortune immense e che oggi prendono le suddette fortune e salutano, Gli “ottanta euro”, i bonus ai diciottenni, a condire le privatizzazioni non sono nemmeno l’aspirina, ma un oppiaceo per dimenticare; quello che abbiamo fatto negli ultimi trent’anni come sistema Paese, sia in termine di proposte che di difesa attiva del sistema Paese, evidentemente non va bene se alla fine scappano tutti. Farlo “per dieci”, come si è provato negli ultimi, tre anni tanto meno. 





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