ALITALIA/ I rischi peggiori di un fallimento

- Juanfran Valerón

Difficile dire quale sarà il futuro di Alitalia. La vendita sembra lo scenario più probabile, ma presenta dei rischi, così come l'avvicinarsi delle elezioni, spiega JUANFRAN VALERON

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Forse bisognerebbe ringraziare i lavoratori di Alitalia che hanno votato no al referendum sul pre-accordo raggiunto tra azienda e sindacati. In fondo hanno evitato che si giungesse, magari tra meno di due anni, allo stesso punto attuale. La compagnia aerea è infatti “insanabile” senza pesanti investimenti e un serio piano industriale. Su queste pagine sono stati più volte indicati i limiti della flotta attuale di Alitalia e gli ostacoli che derivano anche da accordi commerciali con altre compagnie aree che bloccano l’espansione sul profittevole e vitale lungo raggio senza il pagamento di penali. Se non c’è nessun soggetto (con passaporto comunitario) disposto a mettere soldi (tanti) perché accanirsi e prolungare l’agonia?

L’attuale proprietà, del resto, aveva già tentato il rilancio, “benedetto” dal Governo Renzi, ma i risultati sono ora sotto gli occhi di tutti. Non c’è da stupirsi più di tanto, quindi, che i lavoratori non si siano fidati a “fare la loro parte”, facendosi guidare da chi gli aveva già chiesto sacrifici poco meno di tre anni fa. Anche perché quale fosse il nuovo piano industriale non era affatto chiaro: ampliare il lungo raggio? È da quando i “capitani coraggiosi” si sono resi conto che era un suicidio investire tutto sulle rotte interne che si dice lo si stia facendo: ma con quali risultati?

Sarebbe certo interessante poter sapere come hanno votato le singole categorie di lavoratori Alitalia. Tra i piloti è prevalso il no? Oppure ha inciso il voto degli assistenti di volo? O non c’era una categoria che fosse realmente d’accordo con sindacati confederali e azienda? Credo non si saprà mai, ma ora è sicuramente più importante guardare avanti e capire cosa potrà accadere alla compagnia. Fallimento? Difficile da credere, anche se per certi versi sarebbe la soluzione migliore: ripartire da zero, senza più vincoli né di flotta, né contrattuali. Solo che non è più il tempo dei “miracoli” di Sabena e Swissair, che altro non sono poi che emanazioni di Lufthansa.

Più facile quindi pensare a una vendita. Solo che se nessun pretendente si è fatto avanti sinora (e certamente qualcuno lo avrà pure cercato negli ultimi mesi), perché dovrebbe farlo adesso, se non per pagare qualcosa meno di quel che vale realmente o per prendersi il “pezzo” che più gli interessa? Sarebbe interessante in questo senso sapere, per esempio: quanti slot su Heathrow ha ancora Alitalia? Quanto valgono? Quante compagnie sarebbero disposte a comprare i pochi pezzi di argenteria, residuo di quella che fu la compagnia di bandiera italiana? Se si potesse fare uno “spezzatino”, sarebbe possibile tenersi le attività di lungo raggio, liberate da vincoli e con un perimetro ovviamente più ristretto? Non ci sarebbero in quel caso investitori pronti a provare la nuova avventura imprenditoriale? E ci sarebbe qualcuno disposto ad acquistare le attività di breve-medio raggio senza fare “macelleria sociale”?

Domande con una risposta (non in tutti i casi) non facile. Fossi un italiano o un dipendente di Alitalia non sarei molto tranquillo circa il processo di vendita della compagnia. Un po’ perché il rischio che si trasformi in una svendita è alto, soprattutto se a guidarlo non ci sarà qualcuno esperto del settore. Inoltre, non si è lontani dalle elezioni e non è difficile dimenticare quello che è successo nel 2008, quando la vicenda Alitalia si è trasformata in uno dei temi della campagna elettorale. Vista com’è andata a finire allora sarebbe meglio evitare un “bis”.





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