SPY FINANZA/ L’inchino di Trump alla Cina nascosto dai missili in Siria

- Mauro Bottarelli

Donald Trump ha autorizzato l'attacco in Siria proprio mentre ospitava Xi Jinping. E il Presidente Usa sembra davvero in difficoltà con la Cina, spiega MAURO BOTTARELLI

xi_jinping_lapresse Xi Jinping (Lapresse)

Quando accadono fatti come quelli dell’altra notte, si tende sempre a reagire con la pancia: oddio, il rischio della Terza guerra mondiale è alle porte! Che gli Usa abbiano bisogno di un nuovo periodo di guerra al terrore per riattivare il moltiplicatore del Pil legato alle spese militari, ve lo dico da tempo: era solo questione di pazienza, Donald Trump è arrivato alla Casa Bianca con tutte le migliori intenzioni rispetto al limitare l’approccio statunitense da gendarme del mondo, ma ci è voluto poco per capire che non è certo l’inquilino di Pennsylvania Avenue quello che prende le decisioni negli Usa. 

Non entro nel merito della questione in maniera chirurgica, perché non vorrei che la mia visione poco ortodossa turbasse il fine settimana a qualcuno, ma vi faccio notare solo alcuni particolari, prima di addentrami nel tema reale. Ci sono due chiavi interpretative di quanto accaduto l’altra notte. Primo, il Pentagono aveva in agenda uno strike strategico contro Assad da tempo e l’attacco con armi chimiche si è tramutato unicamente nel casus belli che si attendeva. Si attendeva o si è fatto accadere, visto che circolavano voci dell’accaduto tre ore e mezza prima che i caccia siriani entrassero in azione nell’area di Idlib? Poco male, non so voi, ma io il pelo sullo stomaco ce l’ho: non sarebbe stata la prima volta che “si fa succedere” qualcosa e non solo da parte statunitense, basti valutare gli interessi in ballo. Secondo, se davvero l’attacco Usa è nato dall’indignazione di Donald Trump per la strage di bambini (era piccolo, ma chissà come ha reagito alla scelta del suo governo dell’epoca di irrorare quelli vietnamiti con il napalm?) e tutto è stato deciso in meno di 48 ore, direi che al Pentagono hanno da preoccuparsi: dei 59 missili Tomahawk sparati, ne sono andati a bersaglio solo 23, di fatto arrecando danni minimi alle strutture (i russi hanno perso 4 vecchi Mig che ormai non entravano nemmeno più in missione operativa). Mira storta? Poca volontà di base di arrecare danni seri, ma solo voglia di mostrare al mondo che s è inviato un segnale, soprattutto a un’opinione pubblica americana che comincia a fare i conti con un’amministrazione piuttosto pasticciona, un’economia che non brilla e un Russiagate che diventa ogni giorno di più un boomerang? Oppure qualcosa di inconfessabile: ovvero, che le batterie missilistiche terra-aria S-300 russe dislocate in Siria hanno fatto egregiamente il loro lavoro, non appena attivate? 

Non entriamo nel bellico, mi limito a un’ultima annotazione: ogni bomba contenente agenti chimici, nella fattispecie sarin, è da almeno 500 chilogrammi, quindi se davvero fossero state sganciate (ogni caccia ne porta in dotazione due) non saremmo qui a contare 80 morti, ma un’intera città rasa al suolo e intossicata. Ora, il nodo reale: sapete qual è la cosa che maggiormente detestano i cinesi, culturalmente? Le sorprese. Figuratevi se siete il presidente della Repubblica popolare in visita ufficiale. Già Xi Jinping, per struttura umana, politica e culturale, non ha gradito particolarmente essere ospite in quella specie di Disneyland in cui vive nei weekend Donald Trump quando raggiunge la Florida, figuratevi ritrovarsi in una specie di war game in diretta: ma quale capo di Stato, mentre sta ospitando uno dei suoi omologhi più potenti (nonché ancora munifico detentore del suo debito pubblico), poggia la tazzina del caffè sul tavolo, chiede scusa e va nello Studio Ovale a dare l’ordine di attacco contro un Paese sovrano, oltretutto protetto stranamente da uno degli alleati più fedeli dell’ospite lasciato in soggiorno? Ma chi consiglia Donald Trump? Spero vivamente che questa pagliacciata non sia stato un patetico tentativo di intimorire Xi Jinping rispetto all’interventismo di cui gli Usa sono pronti, perché – al di là del risultato militare risibile – non farebbe che rendere ancora più tesi i rapporti con Pechino. 

D’altronde, che non siano la Siria o il futuro di Assad al centro degli interessi del mondo, lo hanno confermato le Borse, tutte con i nervi abbastanza saldi dopo un iniziale sbandamento. Anche l’oro ha limitato il suo balzo in avanti, sintomo che nessuno è pronto a scendere nei bunker anti-atomici, così come il rally del petrolio, abbastanza normale quando si va a toccare il Medio Oriente, ma immediatamente definito di corto respiro dagli analisti: Nomura ha scritto chiaro e tondo che il rally sarà possibile solo in caso di campagna prolungata degli Usa contro la Siria. Quindi, posizionatevi pure short in vista della prima lettura delle nuove scorte statunitensi. Il dato di fatto politico-economico è altro: certo, la giornata di giovedì era di fatto dedicato solo alla conoscenza informale tra i due leader e Xi Jinping ha subito compiuto il beau geste di invitare Donald Trump in Cina come atto di cortesia e segnale che il rapporto non si raffredderà dopo questo meeting, ma lo stesso presidente Usa, tradendo la sua totale incapacità a governare una superpotenza, ha detto scherzando che il suo omologo aveva bocciato qualsiasi sua richiesta fino a quel momento. E la stessa retorica da America first sentita in campagna elettorale contro Pechino, è sparita dal tavolo: niente dazi, niente accuse di manipolazione valutaria, niente forzature sulla Corea del Nord o sulle isole artificiali nel Mar Cinese Meridionale, non un accenno a Taiwan, nessun fiato sull’esportazione continua di deflazione da parte del Dragone attraverso la sua sovra-produzone di commodities

Di fatto, Donald Trump ha lasciato che fosse lo strike contro la Siria a parlare per sé e per il rinnovato orgoglio Usa nel mondo, questo perché al tavolo diplomatico con Pechino si è comportato come un padrone di casa ossequioso: al netto della narrativa di Barack Obama e dei suoi piccoli fans sparsi per le redazioni di mezzo mondo, l’economia statunitense non può permettersi di fare guerre commerciali a nessuno, oggi come oggi. Tantomeno alla Cina, il cui status di economia di mercato sarà ancora ballerino, ma che, in ossequio alla globalizzazione voluta proprio dai circoli liberal statunitensi, tiene per il bavero mezzo mondo, sia attraverso la svalutazione monetaria che attraverso la competitività inarrivabile. Abbiamo voluto dare retta ai Clinton e alle loro promesse di un mondo senza barriere, né confini? Ora non lamentiamoci se siamo ostaggi di Pechino e del suo abuso di quella mancanza di regole totale: Donald Trump non otterrà nulla dalla Cina se prima non scenderà a compromessi e quest’ultima ipotesi significa rimangiarsi in toto o quasi le ragioni che lo hanno portato alla Casa Bianca. Chi spiegherà all’operaio dell’Iowa o all’agricoltore del Nebraska che gli slogan autarchici erano soltanto delle sonanti balle che si sono bevuti per incapacità di decodificarli come tali? 

In un mondo globalizzato e finanziariazzato come quello che gli Usa hanno voluto creare, ci sono molte opportunità, ma anche dei vincoli e dei limiti: se permetti a Pechino di essere il tuo primo creditore, poi non si può pensare di alzare le barricate o anche soltanto la voce. La Cina sta guardando oltre: economicamente vuole chiudere la stagione dell’export e della sovra-produzione, tramutandosi in una società dei consumi interni. Certo, è una rivoluzione che non richiede mesi ma anni, il fatto è che Pechino si è posta un obiettivo e finora ha lavorato, anche in maniera scorretta, per raggiungerlo: o, quantomeno, per essere indirizzata sulla strada giusta per farlo. Gli Usa, invece, sono un’economia che si regge unicamente sulla Fed: pensate che bastino un paio di fabbriche della Ford che aprono negli Stati Uniti invece che in Messico per colmare il gap? 

Quanto accaduto l’altra notte, quei missili sparati in segno di forza e finiti chissà dove per la maggior parte, sono la fotografia perfetta del mondo multipolare in cui viviamo e vivremo sempre di più: l’unico atto reale che conta, il vero game changer, è capire quanto davvero Pechino intende proseguire lungo la sua strada di affrancamento dal dollaro come valuta di riserva globale. Se lo farà, gli Usa dovranno decidere cosa fare: a quel punto, l’ipotesi di una guerra in piena regola non sarà più azzardata. Per ora è solo warfare per scaricare un po’ di missili da troppo tempo in magazzino e rumore per coprire la debolezza infinita di un presidente ostaggio e di una superpotenza che di super non ha più nulla. 





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