TELECOM/ La “farsa” di Vivendi smascherata da Bill Gates

- Sergio Luciano

La Consob ha riconosciuto che Vivendi controlla Tim. Resta comunque la domanda sulla strategia che sta seguendo la società che fa capo a Bollorè. SERGIO LUCIANO

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Quando in Italia – la ex “culla del diritto” divenutane ormai la tomba – la scienza giuridica si divarica dalla realtà merita derisione, almeno ideologicamente. La sola idea che la Consob abbia impiegato quattro mesi e mezzo per constatare l’ovvia evidenza, che cioè Vivendi controlla Tim, merita il commento di Eduardo De Filippo nell’indimenticabile episodio del film L’oro di Napoli intitolato “‘O Pernacchio”. E che ora i servitori togati di Vivendi si indignino e minaccino controrepliche in punta di diritto fa parte del teatrino.

Dunque la vagheggiata confluenza tra Telecom e Mediaset – vagheggiata peraltro da Vivendi, che oggi ancora le partecipa entrambe, ma non dalla Fininvest – evaporerà, innanzitutto per motivi giuridici e prima ancora di confrontarsi con i numeri del business. Possiamo immaginare che il controllo di Telecom torni in ballo al più presto, perché beccarsi sul gobbo 25 miliardi di debiti da consolidare non è quel che il signor Vincent Bollorè agognava quando s’è infilato per caso nella battaglia dei telefoni italiani, accettando l’8% di Telecom a titolo di baratto da Telefonica alla quale aveva ceduto un’altra sua inutile partecipazione telefonica in Sudamerica, e quindi cercherà di sfilarsi quanto prima (giustamente smentendo di volerlo fare fino al nanosecondo precedente). E possiamo anche ritenere che Mediaset resti a Berlusconi finché quest’ultimo o tra cent’anni i suoi eredi non decideranno di vendere o non si vedranno offrire una montagna di fantastiliardi che nessuno per ora intende offrirgli.

Ma la sostanza che rileva e che emerge da questo affaire è un’altra, ed è dissimulata dai commentatori, non per chissà quali torbidi interessi, ma per quello strano timore reverenziale che avvolge certi temi e e impedisce un’analisi franca, soprattutto quando c’è di mezzo l’alta tecnologia. Per Vivendi, la partita italiana è compromessa sul piano finanziario, ma non ha mai avuto senso su quello industriale. È stata una bella “equity story” da raccontare ai mercati, nient’altro. Il grande giocatore di poker bretone a questo tavolo non può vincere, meglio per lui che torni a concentrarsi sui traffici nei porti africani… 

La famosa convergenza tra telecomunicazioni e contenuti è come Atlantide: un mito. Quando nel ’99 ne emerse la prima incarnazione, la fusione tra Aol e Time-Warner, si versarono fiumi d’inchiostro (qualche ruscelletto inconsapevole anche il sottoscritto) per affermare che era mutato il paradigma. E sì che tre anni prima Bill Gates aveva già scritto quel saggio-pietra miliare che s’intitola “Content is king”. Gates aveva capito che la gente cerca ovunque possa trovarli i contenuti che predilige. Ovunque: non necessariamente attraverso un determinato fornitore di connettività telefonica. Aol e Time-Warner pensavano invece – e tantissimi analisti insieme a loro – che l’attrattiva dei contenuti Time-Warner sarebbe stata straordinariamente potenziata dalla capillare diffusione di American on-line come provider Internet e avrebbe generato miracoli di business. 

Fu un clamoroso flop. Le decine e decine di milioni di americani che usavano il messenger di Aol non ebbero mai la benché minima intenzione di attaccarsi al medesimo per vedere i film di Time-Warner e la fusione si sciolse.

In Italia nel 2001 eBiscom lanciò due videoportali sul web: eBismedia e Raiclick, quest’ultima in joint-venture con la Rai del visionario Franco Iseppi, per offrire video-on-demand capace di far vedere anche le preziose teche. Ma non c’era la banda larga e pochi furono gli abbonati: per quanto si trattasse, in definitiva, dell’embrione di Netflix! Successivamente anche un futuro amministratore delegato di Fastweb, il bravo Stefano Parisi (oggi pivot del non esiguo vivaio dei papabili a futuro-leader del centro destra italiano quando nel prossimo millennio il Fondatore-Proprietario avrà passato la mano), ci provò con Chili, un altro videoportale intelligente e funzionale, ma dall’andamento migliorabile. E Chili non presuppone, in ogni caso, che l’utilizzatore sia abbonato a questo o a quell’operatore telefonico. Come Netflix, vi si accede da dovunque.

Le alleanze commerciali “tattiche” tra Sky e Fastweb hanno invece funzionato decentemente negli anni Duemila (vendiamo insieme un abbonamento a Sky che non imponga l’adozione dell’antenna parabolica e un collegamento Fastweb in banda larga), ma senza che per questo genere offerte si siano arricchiti né l’uno, né l’altro partner.

Il momento magico in cui forse si poteva compiere il miracolo si può collocare nel 2007, quando Marco Tronchetti Provera condusse l’allora sua Telecom a un passo dalle nozze strategiche con Sky sempre allo scopo di veicolare i contenuti di Sky alla clientela finale di Telecom, clientela all’epoca ancora internazionale (il Sudamerica non era ancora stato svenduto a Telefonica): ma proprio perché fattibile e minacciosa per la politiconzola italiana, l’ipotesi venne silurata da Prodi e Tronchetti venne più o meno espropriato del controllo di Telecom. Comunque la storia non ci dice che quel tentativo avrebbe avuto successo: diciamo che neanche lo nega, perché il tentativo non ci fu.

Da allora è passato un secolo, non dieci anni. La banda larga – nel limite in cui la si intendeva allora: i 4-5 mega che permettono di vedere bene un film o una partita di calcio – è diventata una “commodity”, per quella metà di italiani che accede regolarmente a Internet: se non altro, lo è via cellulari. E il fenomeno Netflix dimostra che si può avere successo come distributori e anche produttori di contenuti unicamente infilandoli nella normale rete Internet universale. Ma se è così – e lo è, e House of Cards e i suoi fratelli sono lì a dimostrarlo – che senso ha insistere a voler celebrare queste nozze grottesche e innaturali tra aziende di rete, con viluppi infiniti di cavi sotterranei, e aziende impalpabili, immateriali, che vivono di contenuti?

Perché ad esempio Disney ha rotto con Netflix e si mette in proprio a distribuire on-line i suoi contenuti? Perché ha capito che ormai tecnologicamente è diventato facilissimo riuscire a distribuirli “in proprio” via web e perché i bambini di tutto il mondo sanno chi è Bambi, e vogliono vederlo, ma non sanno chi è Bollorè, e comprensibilmente non gliele importa un fico secco…

Dunque, di quali sinergie cianciano i sostenitori tardivi delle nozze tra reti e contenuti? Content is king, aveva detto 21 anni fa Bill Gates. Ora si capisce perché: non sono determinanti i cavi, quando il loro valore aggiunto diventa diffuso, anonimo e indifferenziato. Erano e restano determinanti i contenuti. Si può aver successo con i contenuti e senza rete, come Netflix; e fare flop con le reti migliori del mondo ma senza contenuti “giusti”. Gates l’aveva capito per tempo, ma lui è un genio vero, l’Europetta bretone-consobiana di geniale non ha proprio nulla.





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