FACEBOOK E CAMBRIDGE ANALYTICA/ Quando scopri che il prodotto siamo noi

- Sergio Luciano

Lo sfruttamento dei dati di 50 milioni di utenti Facebook da parte della società di comunicazione Cambridge Analytica è un abuso che ci scopre impotenti. SERGIO LUCIANO

crollo borsa di milano coronavirus spread (LaPresse)

Bando alle chiacchiere: per le società che, come Facebook e Twitter, gestiscono i social media, il prodotto siamo noi, con i nostri gusti, le nostre abitudini, i fatti nostri. Loro ce li carpiscono, nel 99 per cento dei casi, dopo averci fatto acconsentire al furto, e poi usandoli per scopi che se ci fossero stati prospettati ci avrebbero dissuaso dall’acconsentire.

Ma ieri, l’ondata internazionale di discredito che ha sommerso Facebook — crollata in Borsa del 7 per cento — potrebbe segnare una svolta forse storica. Quand’è troppo, è troppo. Gli eccessi incontrollabili delle applicazioni indiscriminate delle tecnologie digitali si rivelano tali solo di fronte a episodi eclatanti. Lo sfruttamento dei dati di 50 milioni di utenti Facebook da parte della società di comunicazione Cambridge Analytica, nel caso di Facebook; oppure — e l’accostamento è inevitabile, anche se suggestivo e un po’ scorretto — l’investimento mortale, accaduto proprio ieri, di una donna in Arizona da parte di un prototipo di auto a guida autonoma realizzato da Uber. Quando è troppo è troppo.

Andiamo con ordine. Oggi, Facebook fattura oltre 40 miliardi all’anno di raccolta pubblicitaria. Una pubblicità senza precedenti, costruita su una possibilità altrettanto inedita, nella storia dei media: quella di poter inviare a ciascun utente la pubblicità dei prodotti da lui presumibilmente più graditi. Come? Grazie alla rilevazione e allo studio sistematico dei dati generati dai comportamenti di navigazione dell’utente stesso.

Intendiamoci: se la collettività confrontasse la devastante quantità di messaggi pubblicitari che ci sommerge con i nostri comportamenti di consumo, ne dedurrebbe che è in atto un’inflazione, uno sperpero senza precedenti di messaggi nella storia della comunicazione mondiale. E che chiaramente questo bombardarci di messaggi asseverativi (più pizze mangio, più me ne vengono pubblicizzate) non può che determinare un effetto di saturazione sul pubblico: come dimostra il fatto che a fronte di un’incredibile esplosione di comunicazione, i consumi se ne rimangono sempre lì, piatti!

Ma tornando agli scandali da tecnologia fuori controllo, ecco in due parole cosa dimostra il caso Facebook, al di là dei troppi arzigogoli che ne stanno facendo in America. 

Cambridge Analytica è entrata in possesso di informazioni relative a 50 milioni di utenti Facebook che in realtà non avrebbe potuto usare. Cinquanta milioni, non cinquemila utenti. E si sospetta che ne abbia fatto un uso a fini politici, cioè li abbia adoperati per trovare terreno fertile per la sua propaganda elettorale. Più precisamente: Cambridge Analytica ha creato sei anni fa l’applicazione thisisyourdigitallife, grazie ad un ricercatore di Cambridge, Aleksandr Kogan. Diffondendo — legittimamente, in base ai deboli criteri di filtro finora imposti da Facebook — l’applicazione sul social network, Cambridge ha raccolto centinaia di migliaia di dati. E poi Kogan, che naturalmente era in grado di recuperarli, li ha ceduti ad una società fondata nel 2013 da Robert Mercer, amico dell’ex consulente di Trump Steve Bannon: almeno, questa è l’accusa. Ed è anche questo il passaggio vietato: eppure Facebook ha indugiato due anni dalle prime segnalazioni prima di mettere al bando Cambridge… che poi sarebbe stata trovata colpevole di molti comportamenti vietati.

Di fronte a questo episodio — ovvio, in fondo — emerge in tutta la sua gravità il pericolo di un uso illecito dei dati raccolti dai social. Dati di cui peraltro già l’uso strettamente pubblicitario è già un abuso, ancorché consentito dalle vittime…

Per riprendere il parallelismo ardito ma suggestivo con il caso di Uber, siamo comunque di fronte a derive incontrollate di potenzialità tecnologiche inedite. Ieri l’automobile in modalità “self-driving” che a Tempe, in Arizona, ha travolto e ucciso una donna in bicicletta, nonostante a bordo ci fosse un uomo che non è però riuscito a riprendere in tempo il controllo del veicolo, è un’altra tecnologia che sta diffondendosi troppo presto e troppo incontrollatamente. Con un inevitabile effetto-boomerang per i suoi promotori.

Solo che mentre le auto a guida autonoma sono prototipi, i social media sono il luogo dove ormai, chi più chi meno, viviamo tutti. Luoghi da bonificare urgentemente dal virus del monopolio e dalla sindrome dell’irresponsabilità.





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