SPY FINANZA/ La Germania (quasi) terremotata e debole mette l’Europa nei guai

- Mauro Bottarelli

Non leggere in parallelo quanto sta accadendo, e accadrà, fra Parigi, Berlino e Roma e fra Tripoli, Vienna e Bruxelles potrebbe essere un grosso errore. MAURO BOTTARELLI

angela_merkel_horst_seehofer_lapresse_2018 Angela Merkel e Horst Seehofer (LaPresse)

Due settimane. Come il preavviso a una colf qualsiasi, di cui non si è più soddisfatti. Il tenore dello scontro fra Angela Merkel e il ministro dell’Interno, il leader bavarese Horst Seehofer, è giunto al suo acme: l’uomo forte di Monaco e ideatore del cosiddetto “asse dei volenterosi” con Italia e Austria sulla questione dei migranti, non intende recedere di un millimetro. Ora sta alla Merkel trovare una soluzione al vertice europeo del 28 giugno, passato il quale si arriverà al redde rationem: Seehofer vuole respingimenti verso i Paesi di approdo e hotspot nei Paesi di partenza, la Merkel punterebbe verso la creazione di una Guardia costiera europea. In mezzo, il peso delle alleanze: Francia e Italia, di fatto gli unici due membri comunitari abbastanza grandi e importanti da poter spostare gli equilibri.

La Germania, mai come oggi dal secondo dopoguerra, è socialmente e politicamente debole, destabilizzata. Quasi terremotata. Mentre, infatti, la Merkel preparava il bilaterale con il nostro premier Giuseppe Conte, preso atto dell’ultimatum di Seehofer, la Procura di Monaco faceva arrestare per frode e dichiarazioni indirette false od omissive nientemeno che il numero uno della Audi, Rupert Stadler. L’inchiesta è quella che già in passato aveva terremotato il settore automobilistico tedesco, il cosiddetto Dieselgate, ovvero le pratiche manipolatorie sulle emissioni inquinanti di automobili del gruppo Volkswagen.

Un terremoto, appunto. E non solo per l’eco che questo avrà nel mondo e, di conseguenza, per la perdita di credibilità tedesca in fatto di serietà industriale, ma anche per il timing: non appena Donald Trump, reduce da un G-7 in cui ha giocato su due tavoli, salvo ribaltarli appena messo piede sull’Air Force One in direzione Singapore, minaccia ufficialmente dazi pesanti e restrizioni sulle importazioni di auto straniere di lusso, la Audi – certamente uno dei primi brand a essere colpiti – finisce letteralmente nella bufera. E, ripeto, con essa la reputazione tedesca nel mondo.

Unite il duello fratricida in seno al governo, tale da aver portato Seehofer ad ammettere che “non posso più lavorare nello stesso esecutivo con quella donna”, e il quadro di quale Europa arriverà al vertice di fine mese è presto descritto: il caos totale. Con il rischio che il clima da “tutti contro tutti” venga aggravato dalla mina vagante ormai sistemica e strutturale della Brexit, sempre più impantanata sia in patria, dove Theresa May ha dovuto fare i salti mortali e inventarsi di sana pianta un emendamento che evitasse di vedere il suo governo andare sotto sul tema a Westminster, sia a livello di trattative con Bruxelles, tanto da aver portato il negoziatore europeo, Michel Barnier, a porre esso stesso dei paletti molto chiari, sia sui tempi che sulle condizioni. Insomma, siamo ai prodromi della disunione europea.

E se nel tentativo di restare aggrappata al potere, Angela Merkel starebbe lavorando a un vertice speciale dedicato al tema migranti da tenere con Italia, Grecia e Austria prima del Consiglio Ue di fine mese, restano sul tavolo tutte le variabili esterne. Prima fra tutte, la capacità stessa dell’Italia di parlare con una sola voce. Giuseppe Conte, con un giorno di ritardo rispetto alla conferenza stampa con Emmanuel Macron, ha difeso la linea di Matteo Salvini, di fatto intestandola all’intero esecutivo, ma è l’altro alleato, il M5s, a inviare ogni giorno di più segnali di malessere sempre più chiari, esacerbati oltretutto dalla tensione nemmeno più sottotraccia legata all’inchiesta sul nuovo stadio della Roma.

Il presidente della Camera e leader in pectore dell’ala sinistra del movimento di Grillo, Roberto Fico, ieri ha chiarito gli schieramenti in campo, quando sul tema si è lanciato in un attacco frontale contro il premier ungherese e alleato-referente di Matteo Salvini, Viktor Orban, invitando la Ue a sanzionare i Paesi come l’Ungheria che si rifiutano di accogliere pro-quota i profughi che giungono in Europa.

Unico, per il momento, a potersi muovere con mano libera pressoché assoluta è Emmanuel Macron, forte di un’opposizione interna divisa a sinistra e inconcludente a destra e del fatto che, a tutt’oggi, il problema migranti ha contenuto i suoi effetti a livello di politica interna: certo, gli errori del precedente inquilino dell’Eliseo, in primis la nascita di campi come quello di Calais o la non opposizione a misure strumentali come la creazione di mini-ghetti all’interno della capitale come quelli sorti su volontà della Hidalgo, hanno garantito benzina al motore del Front National, ma non certamente a livello di ciò che ha dovuto patire chi ha gestito (o non gestito) la questione in Italia, vedi il Pd di governo e il pesante ridimensionamento patito.

Dal suo arrivo all’Eliseo, fattosi forte dell’emergenza terrorismo post-Bataclan che gli ha permesso di sospendere Schengen, chiudere i porti e blindare letteralmente i confini senza che nessuno avesse da gridare al ritorno ai tempi di Vichy, Macron si è garantito il pressoché annullamento del problema, quantomeno “in entrata”, dovendo quindi gestire solo ciò che già si trova sul territorio nazionale: in tal senso, il gesto simbolico di accettare – forse – qualche profugo dell’Aquarius dice tutto dell’atteggiamento transalpino. Predichiamo bene, attacchiamo frontalmente le politiche restrittive altrui, ma in patria ci muoviamo come più ci aggrada: ovvero, seguendo di fatto la stessa linea Salvini che pubblicamente definiamo “vomitevole”.

Attenzione, però, perché la questione migranti è indirettamente collegata anche a un’altra questione, anch’essa di primaria attualità e importanza e anch’essa in preda a furiose divisioni: venerdì, infatti, a Vienna si terrà l’atteso vertice dell’Opec, con in agenda – da parte del gruppo forte formato dall’Arabia Saudita e dal non-membro Russia – l’aumento della produzione globale di almeno 1,5 milioni di barili al giorno solo nel terzo trimestre di quest’anno. Contrarie e pronte al veto, Iran, Iraq e Venezuela.

Insomma, come vi dicevo nel mio articolo dell’altra settimana, serve mantenere il prezzo del petrolio basso per evitare che un assestamento del greggio attorno ai 90 dollari per almeno un trimestre diventi il detonatore della crisi che mercati e, soprattutto, Banche centrali stanno cercando, da un lato, di rimandare , dall’altro, di depotenziare e sgonfiare, come al solito prendendo tempo e giocando di sponda con i vari programmi di stimolo e le iniezioni di liquidità. E si sa, il petrolio scatena guerre reali, oltre a quelle commerciali e quelle finanziarie legate allo status benchmark del dollaro e a quello di balsamo degli indici attraverso il riversarsi dei surplus di budget dei governi esportatori sotto forma di petrodollari.

C’è poi la partita dei futures, il petrolio di carta, che vede contratti per miliardi sui due lati della scommessa, long e short: le prime sono state chiuse in larga parte, non vedendo driver reali per un rialzo dei prezzi sostenuto e prolungato, ma si fa in fretta a dover intervenire, sia per liquidare a prezzi con cui svenarsi, sia operando su volumi tali – in caso l’Opec spiazzi – da dar vita al più classico degli short-squeeze, ovvero una corsa verso la porta d’uscita che, purtroppo, lascia sempre morti e feriti fra la calca immaginaria dei traders. In questo caso, però, non si tratta di singoli investitori retail, come i ciabattini o le casalinghe che si sono fumati i risparmi di una vita con il trading online in Cina; si tratta di società quotate a Wall Street e che operano su titoli del comparto energia che viaggiano attualmente su multipli di utile per azione da mani nei capelli, ovvero come se vivessimo in un regime di domanda/offerta che veda la prima pari a un mondo con crescita al 6% per tutti i protagonisti e la seconda appena appena sufficiente, quasi scarsa.

Peccato che la crescita non ci sia, di petrolio disponibile ce ne sia decisamente troppo (basti vedere solo il numero di petroliere ferme nel Mediterraneo e negli altri mari europei in modalità “contango”, al massimo da 18 mesi, come ci mostra la mappa qui sotto) e che ormai si operi solo geo-finanziariamente sui prezzi, ovvero creando rialzi o ribassi artificiali in base alle necessità di mercati e governi.

Di fatto, l’immigrazione di massa, specie quella economica da Paesi tutt’altro che in guerra, non si basa sullo stesso principio immorale e inumano di sfruttamento allo stato puro? E non pensate che l’interesse della Francia sulla Libia, Paese dove casualmente il generale Haftar si è trovato l’altro giorno a dover affrontare un assalto ai pozzi petroliferi sotto il suo controllo, perdendone una parte, possa in qualche modo pesare su certe dinamiche? Da dove partono i migranti? Dove sono i centri di detenzione extra-Ue, oltre che in Turchia? Con chi fece il patto anti-barconi il ministro Minniti? E, soprattutto, dov’è l’epicentro dell’Eldorado energetico dell’area, escludendo l’ipotesi di un’invasione dell’Iran per impossessarsi dei giacimenti degli ayatollah?

Attenzione, perché non leggere in parallelo quanto sta accadendo e accadrà fra Parigi, Berlino e Roma e fra Tripoli, Vienna e Bruxelles potrebbe essere un grosso errore, potrebbe pregiudicare la comprensione del quadro d’insieme. E, di conseguenza, farsi trovare spiazzati. Abbiamo già pagato questo prezzo nel 2011, magari evitiamo di ripeterci. A meno che qualcuno non stia giocando su più tavoli a Roma, cosa che non escludo affatto. Anzi.





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