SPY FINANZA/ Brasile, la scusa perfetta per garantirci un altro po’ di Qe

- Mauro Bottarelli

Per fermare la politica della Fed, e farla tornare al Qe, una crisi del Brasile potrebbe essere l'ideale. E il Paese sudamericano già vacilla. MAURO BOTTARELLI

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Brutta botta per Donald Trump. In un solo giorno, un doppio colpo alla sua reputazione, sia personale che politica: l’ex capo della sua campagna elettorale, Paul Manafort, è stato infatti ritenuto colpevole da un tribunale Usa per otto capi d’imputazione, fra cui frode finanziaria, mentre lo storico avvocato del tycoon, Michael Cohen, si è dichiarato colpevole di violazione delle leggi elettorali, ammettendo di aver pagato – su mandato diretto del Presidente – la pornostar Stormy Daniels perché tacesse sulla loro relazione. Insomma, lo spettro dell’impeachment è tornato repentinamente ad affacciarsi sulla scena politica statunitense. Il tutto, senza scordarsi del fronte Russiagate, di cui il caso Manafort è parte integrante per l’accusa, non fosse altro per il fatto che l’intera istruttoria è stata condotta dal super-procuratore Robert Mueller in persona. E che, casualmente, nello stesso giorno dei due colpi giudiziari verso la Casa Bianca, Facebook cancellava oltre 650 profili, ritenuti riconducibili a entità russe e iraniane, intenzionate a influenzare e turbare il regolare svolgimento delle elezioni di mid-term di novembre. 

Ma attenzione, perché Donald Trump non pare intenzionato a mollare la presa e, durante un comizio elettorale in West Virginia, ha di fatto smentito il suo segretario al Commercio, Wilbur Ross, annunciando un dazio del 25% su ogni automobile che arriva negli Usa dall’Unione europea. Et voilà, minaccia strumentale o meno, formalmente ogni possibile mediazione pagata a caro prezzo da Jean-Claude Juncker durante la sua recente visita a Washington, non ultima l’acquisto del costoso gas naturale liquefatto (Lng) statunitense in sostituzione di una parte di quello russo, è stata vanificata, spazzata via dalla nuova offensiva interna che richiede, come sempre, una controffensiva populista da parte del presidente, bravissimo in tal senso a fare leva sul patriottismo americano e sull’orgoglio per il made in Usa, al netto poi dei risultati concreti ottenuti finora (praticamente nulli). 

Meglio che ci facciamo l’abitudine, cari lettori: da qui al 6 novembre, gli Stati Uniti avranno un’unico comun denominatore di approccio con il mondo, quello elettorale. E questo influirà in maniera totalizzante su tutto: politica economica, commerciale, estera, monetaria. Tutto. Con l’aggravante della bolla sempre più in espansione e dilatazione del mercato, un qualcosa che rischia di compromettere i progetti del Presidente e della sua controparte interna (il Deep State, essendo i Democratici la fotocopia esatta d’Oltreoceano dell’insipienza del Pd), sia perché il mercato azionario, da ieri nel “mercato del Toro” più lungo di sempre per quanto riguarda l’S&P’s 500, rischia una brusca correzione in autunno, sia perché il dato del Pil del terzo trimestre, quello che non potrà più contare sugli acquisti globali anticipatori dei dazi, verrà pubblicato la settimana prima del voto e un gap troppo ampio rispetto al 4,1% dei secondi tre mesi dell’anno potrebbe compromettere in maniera irreparabile anche il fianco formalmente più inattaccabile del presidente, l’economia. 

Ma c’è un problema ulteriore, globale e da risolvere in fretta: va bloccata la Fed e la sua politica di normalizzazione, prima che mandi troppo fuori controllo la situazione interna con un costo del denaro ingestibile, anche solo a livello di gestione del deficit monstre voluto da Trump e in ulteriore creazione. Come fare? Perché per bloccare la Federal Reserve serve uno shock ma questo rischia di compromettere gli indici azionari, scatenando un effetto 2008 sull’opinione pubblica. Ecco allora la pericolosa strategia in atto. Da un lato il pubblico-elettorato americano verrà blandito con battaglie di retroguardia ma dal forte impatto emotivo, vedi appunto la retorica patriottica della disputa commerciale con la Cina e l’Ue e con il solito fronte dell’emergenza terrorismo, stranamente – ve ne sarete accorti, immagino – assente dalla scena da tempo, nonostante gli allarmi degli ultimi mesi riguardo ritorni in patria in massa dei foreign fighters. In tal senso, come ho già scritto, il voto politico svedese del 9 settembre potrebbe essere molto “delicato”, ma sarà l’intero impianto della politica estera a essere nuovamente declinato in quel senso, questioni afghana e iraniana in testa. 

La bomba, il botto reale, quello che permetterà alla Fed di fermarsi per cause di forza maggiore e totalmente esogene rispetto alla “miracolosa” crescita Usa arriverà da quei mercati emergenti che da almeno un trimestre abbondante stanno pagando dazio, a livello valutario ma anche di indici azionari, al rialzo graduale dei tassi Usa. Nel 2013 fu l’Asia la vittima del Taper tantrum innescato dall’annuncio dell’allora capo della Fed, Ben Bernanke, del ritiro dello stimolo monetario, ora temo l’America Latina. In particolare, il Brasile. In tal senso, ci sono almeno tre criticità già in atto. 

Primo, proprio martedì sera l’indicatore principale di Bank of America-Merrill Lynch relativo ai mercati emergenti ha suonato l’allarme, come ci mostrano questi grafici, i quali parlano chiaro: il dollaro forte che stiamo riscontrando sui mercati – e contro cui si è lamentato con la Fed lo stesso Trump, non più tardi di lunedì – sta mandando fuori controllo il debito estero degli emergenti, denominato in dollari. E il secondo grafico, come vedete, mostra uno dei picchi di tremore nella periferia mondiale, ovvero gli emergenti, proprio in corrispondenza dell’elezione di Lula alla presidenza del Brasile. 

 

E questo altro grafico ci mostra come martedì il real abbia sfondato la quota psicologica di 4.0 rispetto al dollaro, un livello che – se ricordate – vi ho detto che è il vero canarino nella miniera del rischio connesso al nuovo tantrum legato al biglietto verde. Ora, a questa prima criticità, va unita quella dello stato attuale dell’economia e dell’allarme in atto da domenica nel Paese sudamericano. 

 

Se infatti l’organizzazione dei mondiali di calcio ha lasciato buchi spaventosi nei bilanci, mascherati finora alla bene e meglio grazie al Qe globale che ha millantato ripresa sincronizzata e sostenibile, per citare quei geni del Fmi, quattro giorni fa il presidente Michel Temer ha emanato lo stato di emergenza, dispiegando l’esercito ai confini per tamponare l’afflusso sempre crescente di profughi dall’ormai fallito e disperato Venezuela di Maduro, dopo che Colombia ed Ecuador hanno sigillato i confini, essendo state per mesi le destinazioni preferite da chi fuggiva dalle folli ricette economiche di Caracas. E il meeting tenutosi domenica nel palazzo presidenziale non è stato di quelle di routine, visto che erano presenti i più alti funzionari di tutti i ministeri interessati: esteri, sicurezza interna e difesa. Il meeting è stato reso necessario dopo i violenti scontri scoppiati nella città di confine di Pacaraima (Roraima City per i venezuelani) per l’afflusso di oltre 1200 richiedenti asilo e profughi, respinti solo con l’intervento delle forze di sicurezza in quella che è stata una vera e propria battaglia. 

Sono oltre 2,3 milioni i venezuelani già scappati dal loro Paese, la gran parte dei quali verso Colombia, Ecuador, Peru e appunto Brasile e, stando a funzionari dell’Onu, circa 1,3 di questi soffrono attualmente di malnutrizione grave. Insomma, una bomba umanitaria pronta a esplodere. E a rendere ancora più instabile la situazione economica e sociale interna del Brasile, alla vigilia di quella che appare una data spartiacque. La terza criticità è infatti rappresentata da questo: ovvero, in vista del voto presidenziale del 7 ottobre prossimo, è il Partito dei lavoratori del deposto e arrestato ex presidente Lula a guidare i sondaggi con un vantaggio siderale sul secondo e, soprattutto, con il candidato ritenuto più market-friendly (quindi ben visto dagli osservatori e, soprattutto, investitori esteri), Gerlado Alckmin, inchiodato su un poco lusinghiero 4,9% dei consensi. 

 

E i mercati come hanno reagito a questo sondaggio-shock? Per Tania Escobedo, strategist per l’America Latina alla Rbc Capital Markets di New York, «Turchia e Argentina sono gli esempi di quanto sia devastante per i mercati finanziari quando gli investitori perdono la fiducia nella direzione politica e istituzionale. Il partito di Lula rappresenta esattamente questo scenario, a meno che non moderi di molto i suoi punti di vista». Ancora più netto il giudizio di Win Thin, strategist alla Brown Brothers Harriman sempre di di New York, a detta del quale «chiunque venga sostenuto da Lula rappresenta lo scenario peggiore. Ma temo che la gran parte dei suoi sostenitori voterà per chiunque l’ex presidente sceglierà come successore». Le conseguenze? «Il real potrebbe perdere oltre il 20%, arrivando in area 5.0 sul dollaro, mentre l’indice Ibovespa potrebbe perdere un terzo del suo valore di mercato». 

Addirittura peggiore lo scenario prospettato da Bank of America-Merrill Lynch, la quale vede immediatamente il real in area 5,5 sul dollaro. Insomma, un mix devastante a un mese e mezzo dal voto. Ma anche la condizione perfetta per chi nutra mire destabilizzanti verso il Paese, potendo godere del combinato congiunto di fragilità macro, emergenza immigrazione ai confini e instabilità politica che già pesa su valuta e debito. E poi, giusto in tempo per innescare una crisi a livello sistemico prima delle elezioni di mid-term del 6 novembre, potendo addossare la colpa di eventuali mosse emergenziali della Fed a rischi esterni. Attenti al Brasile. 





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