Sanità, ecco perchè la valutazione non è un optional

- Luca Merlino

La valutazione delle performance e del rendimento dei servizi sanitari è diventata necessaria, quasi obbligatoria, se non si vuole rischiare di retrocedere rispetto ai criteri fondanti del sistema di solidarietà e di universalità di accesso ai servizi sanitari

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La Costituzione repubblicana, approvata nel 1948, ha segnato la nascita del welfare status ed ha introdotto nuovi diritti universali dei cittadini rispetto alle prestazioni sociali, che rappresentano dei diritti per i cittadini in quanto tali e non in quanto descritti da un determinato status, quello di lavoratore ad esempio. Lo Stato finanzia, programma, costruisce e gestisce; questa breve affermazione sintetizza ciò che è accaduto dal 1948 al 1992 circa, passando nel 1978 per l’istituzione, con la legge 833, del Servizio Sanitario Nazionale. Negli ultimi decenni le nuove esigenze politiche relative al rispetto del patto di stabilità europeo e di finanza pubblica hanno portato a sviluppare dei modelli normativi ed organizzativi che, pur prevedendo l’unitarietà del governo, lo hanno articolato sui diversi livelli istituzionali che costituiscono la nostra Repubblica (Regioni e Comuni) introducendo il concetto della sussidiarietà verticale, che negli ultimi anni è stata anche spesso utilizzata per “scaricare” responsabilità senza dare adeguate risorse.

Il D.Lgs. 502/1992 ha introdotto il concetto di conduzione e gestione aziendale dei servizi sanitari, quello del finanziamento a prestazione degli stessi e quello della valutazione e del mantenimento nel tempo della loro qualità. Nel nostro paese quindi – ma lo stesso si può comunque affermare anche per le altre nazioni nelle quali esiste un sistema sanitario di tipo universalistico – per continuare a garantire il diritto costituzionale alla salute è stato adeguato l’assetto istituzionale ed amministrativo del sistema, puntando a coniugare la solidarietà del servizio alla sua gestione efficace ed efficiente.

La valutazione delle performance/rendimento dei servizi è quindi diventata necessaria, quasi obbligatoria, se non si vuole rischiare di retrocedere rispetto ai criteri fondanti del sistema di solidarietà e di universalità di accesso ai servizi sanitari.

Principali dimensioni di misura delle performance del processo di erogazione dei servizi sanitari

Le dimensioni di misura delle performance sono le caratteristiche del sistema sanitario, definibili e misurabili, correlate alle azioni messe in atto per promuovere, mantenere la salute e curare ed assistere i malati. Una delle dimensioni chiave più comunemente considerata nei modelli nazionali di valutazione delle performance è la cosiddetta effectiveness: il grado di raggiungimento dei risultati attesi data un’appropriata erogazione di servizi, basata su solide evidenze scientifiche e fornita a tutti coloro che ne possono beneficiare e non a quelli che si prevede invece non ne possano beneficiare. La traduzione italiana di questo termine non può coincidere con un semplice sostantivo e la definizione che riesce meglio ad esprimere questo concetto è quella di “percorso clinico organizzativo che garantisce che la cura sia basata su solidi elementi di prova, quali quelli che sono prodotti da una ricerca scientificamente ed eticamente affidabile”.

Sottolineando ulteriormente il concetto di effectiveness, la stessa può essere intesa come la misura di quali miglioramenti ottenibili dello stato di salute siano alla prova dei fatti realmente conseguiti, confermando con questa affermazione la necessità di poterla verificare mediante la misura e la valutazione di altri indicatori di performance. Di seguito se ne elencano alcuni:

Appropriatezza: rappresenta il grado di pertinenza e di adeguatezza, date le migliori evidenze disponibili, del servizio/cura messo in atto per rispondere ad un determinato bisogno di tipo sanitario/clinico.

Sicurezza: si tratta di una dimensione per la quale il sistema eroga servizi adeguati con strutture e strumentazioni moderne e sicure per prevenire danni ai pazienti, agli operatori ed all’ambiente.

Efficienza: riguarda la definizione della corretta quantità di risorse necessarie per il sistema ed il loro conseguente utilizzo assicurando di utilizzarle con la finalità di raggiungere il massimo risultato ottenibile. Individuare il livello di risorse pubbliche adeguate può essere un problema per le decisioni che la politica deve prendere, ma nello stesso tempo un set di buoni indicatori di performance può rappresentare un buon supporto a motivazione di questa decisione.

Continuità: individua il modo nel quale, soprattutto per pazienti cronici, i servizi sono erogati senza soluzione di continuo tra i diversi livelli ospedalieri, ambulatoriali e territoriali. La continuità delle cure può essere vista e misurata dalla prospettiva del paziente, anche se il lavoro di coordinamento e di integrazione dei servizi è difficile da misurare dalla sola prospettiva del paziente perché molte delle azioni sono per così dire “dietro la scena”.

Accessibilità: è la facilità con la quale i servizi sono raggiungibili.

Equità: è la misura in cui un sistema si occupa in modo equo di tutti i soggetti potenzialmente interessati al servizio.

Capacità di risposta: definisce come il sistema facilita per la gente il raggiungimento delle proprie aspettative di natura non sanitaria.

Mettere al centro il paziente: consiste nel mettere il paziente al centro dell’organizzazione e dell’erogazione dei servizi. La valutazione di questo indicatore di performance viene effettuata mediante rilevazioni periodiche del giudizio dei pazienti soprattutto per quanto riguarda l’assistenza.

Tempestività: capacità di rispondere nei tempi più adeguati alle necessità specifiche ed alle possibilità di efficacia dei trattamenti.

Capacità di farsi carico dei bisogni: è la capacità di adeguarsi alle necessità ed ai bisogni dei pazienti e dei loro familiari soprattutto nell’area della cronicità e della continuità delle cure.

Clinical Governance

Questa nuova cornice gestionale ed organizzativa, nella seconda metà degli anni ’90, con l’avvento del governo laburista, è stata sinteticamente definita in UK con il termine di Clinical Governance. La traduzione italiana di questo concetto, al pari di quella di effectiveness, è difficile e negli ultimi anni, vedi anche disegni di legge di governi passati, si sono espressi vari tentativi che vanno dal “potere alla clinica” al tentativo di applicare nella realtà italiana i metodi e la cultura del NHS (National Health System) inglese, senza avere già disponibili ed operativi gli strumenti e la formazione necessari anche solo per coglierne il senso e le eventuali opportunità al fine del miglioramento della qualità dei servizi. Per meglio comprendere il concetto, forse conviene togliere la parola “clinical”, che è stata inserita per individuare il contesto nel quale viene ad esplicarsi la governance e che nel momento storico in cui il termine è stato coniato in UK doveva dava un forte segnale di discontinuità rispetto ad un periodo durante il quale avevano prevalso le ragioni della efficienza e della razionalizzazione dei costi. In termini generali possiamo comprendere l’utilizzo del termine governance rifacendoci al discusso documento “Our Global Neighborhood” prodotto dalla “Commission on Global Governance” istituita nel 1992 con il pieno supporto dalle Nazioni Unite, che ha definito la governance come “la somma dei tanti modi con cui individui ed istituzioni pubbliche e private gestiscono i loro comuni interessi (affairs) che possono anche confliggere tra loro e che trovano un accomodamento tramite regole e modalità operative istituzionalmente formalizzate o pur anche informalmente sviluppate, che la gente e le istituzioni quindi o hanno approvato o percepiscono nel loro interesse” (Commission Global Governance, 1995). 

Governo clinico è stato introdotto nel NHS (Servizio Sanitario Nazionale) del Regno Unito come un nuovo modello organizzativo e gestionale per il miglioramento della qualità. È utile, per comprendere il motivo della introduzione di questo modello gestionale, confrontarlo con i quattro principali approcci alla misurazione ed al miglioramento della qualità delle cure:

Valutazione della qualità (quality assessment)

Audit clinico

Assicurazione della qualità (quality assurance)

Miglioramento continuo della qualità.

Il quality assessment, ovvero il confronto tra i risultati osservati e quelli attesi sia sulla base dell’esperienza professionale che degli standard e degli obiettivi, è sotteso a tutti gli approcci ed è di pertinenza, per ovvie questioni di competenza e di strumenti specifici, dei professionisti. 

Il termine audit è nato nel mondodell’impresa, ove è utilizzato per indicare le attività di certificazione/revisione del bilancio delle imprese. In ambito sanitario è stato utilizzato soprattutto nel mondo anglofono, in particolare nel Regno Unito, ove stava ad indicare le attività di revisione della documentazione clinica finalizzate ad individuare possibili criticità o problemi, sui quali fosse necessario intervenire. Nel tempo si è spesso trasformato in sinonimo di processo di miglioramento o CQI (Continous Qualità Improvement).

L’audit clinico può essere interno, cioè svolto da professionisti della stessa struttura, od esterno, ovvero realizzato da esperti provenienti da altre strutture. Solitamente è un’attività volontaria, basata sulla logica della peer-review (revisione tra pari), ma in alcuni casi è divenuta procedura obbligatoria, talvolta con caratteristiche ispettive-sanzionatorie. Il livello di “oggettività” della procedura è molto vario, essendo molto preciso nei casi in cui si voglia verificare la semplice presenza di documentazioni o procedure scritte, ma spesso soggettivo e discrezionale nei casi in cui si valuti invece il comportamento dei clinici e la loro competenza. Il maggiore sviluppo della metodologia si è avuto nel Regno Unito, in particolare dopo il 1996, quando l’audit viene indicato come metodologia da utilizzare sistematicamente per la valutazione ed il miglioramento della qualità. In tale periodo il NICE (Istituto Nazionale per l’Eccellenza Clinica) ne formulò la seguente definizione: “È un percorso/metodo per il miglioramento della qualità il cui obiettivo è migliorare l’assistenza al paziente e i risultati di salute sia tramite valutazioni (ex post) della assistenza erogata sulla base di criteri espliciti sia attraverso processi di implementazione del cambiamento. La valutazione in base a criteri espliciti viene effettuata su alcuni aspetti, selezionati, della struttura, del processo e dei risultati di salute. I risultati dell’audit indicheranno su quali aspetti si debba intervenire e a quali livelli, e come sia necessario agire per facilitare il cambiamento (a livello individuale, di gruppo, di organizzazione). La metodologia dell’audit prevede inoltre attività di monitoraggio per verificare se il cambiamento implementato si sia mantenuto nel tempo.

Considerando che l’audit clinico è prerogativa delle professioni sanitarie resta il fatto che il maggiore impulso per la promozione della qualità è venuto dagli amministratori. Gli interventi di quality assurance sono stati prevalentemente percepiti come estranei, voluti dal management, ed intrusivi nel campo delle professioni e di coinvolgerle in una modalità prevalentemente ispettiva. Il modello organizzativo e gestionale del governo clinico è stato quindi varato dal governo inglese come tentativo di superare queste resistenze e queste obiezioni e per cercare di mettere insieme, rendendoli sinergici, l’approccio di promozione e di valutazione della qualità di tipo più professionale (quality assessment ed auditing clinico) con quello utilizzato dalle amministrazioni e del management di formazione non sanitaria (quality assurance e miglioramento continuo della qualità). Si può anche dire che la clinical governance sia stata introdotta nel NHS per permettere ai clinici di giocare un ruolo determinante nel processo di promozione e miglioramento della qualità dei servizi all’interno delle strutture e delle organizzazioni sanitarie, in una dinamica di maggiore responsabilizzazione. Il fallimento di questo processo comporterà in modo inevitabile che siano figure manageriali ed amministrative ad appropriarsi dei temi legati alla qualità ed a gestirli in posizione sovraordinata rispetto alle professioni.

Le Professioni 

Fatte queste premesse, è necessario individuare quale spazio trova nei grandi sistemi sanitari nazionali il ruolo della professione medica, che di fatto ha perso la propria posizione di dominanza e di autonomia decisionale e che si è trovata ad essere comprimaria e rimessa in discussione anche dal punto di vista dei propri presupposti deontologici.

L’articolo 6 del nuovo codice deontologico della professione medica tratta della qualità professionale e gestionale e stabilisce il principio di efficacia delle cure che viene, se non subordinata, fortemente legata alla necessità di un utilizzo appropriato delle risorse. “Qualità professionale e gestionale. Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto dell’autonomia della persona tenendo conto dell’uso appropriato delle risorse” (Articolo 6). Se non si operasse nel contesto di un servizio sanitario nazionale di tipo pubblico ci sarebbe stata la necessità di fornire una tale puntualizzazione? La professione è intrinsecamente, direi quasi ontologicamente, interessata, oltre che alla efficacia, anche all’utilizzo appropriato delle risorse? È questo un valore di tipo assoluto, che prescinde quindi dal contesto di regole e di finanziamento – pubblico, privato o misto che sia – in cui il medico si trova ad operare e che diventa una componente della qualità professionale? Per il medico sono stati introdotti degli obblighi deontologici di tipo gestionale: è chiaro che ormai la professione medica è vista è considerata costantemente in rapporto non solo con il paziente, ma con il sistema di cui è uno degli attori e dei punti di responsabilità principale. Da questo punto di vista il medico, portando il concetto alle estreme conseguenze, parrebbe essere veramente responsabile nei confronti dei propri pazienti nella misura in cui è primariamente responsabile anche rispetto agli obblighi che ha nei confronti dello Stato, in quanto garante dei diritti primari tra i quali, primo fra tutti, quello della salute sancito dall’articolo 32 della Costituzione.

È altresì vero che chi scrive è fermamente convinto che la questione della buona efficacia dei servizi sia connaturata alla professione medica. Questa affermazione sembra essere scontata, ma la sua non considerazione mina alla base tutti i discorsi, le teorie e le azioni conseguenti. Vi è infatti un numero significativo di esperienze di valutazione delle performance del sistema anche attraverso la costruzione, ormai più che decennale, di indicatori clinici il cui sviluppo pare però più interessare le amministrazioni piuttosto che il mondo dei professionisti.

Infatti le esperienze più datate e consolidate di elaborazione e pubblicazione di indicatori clinici si sono sviluppate su iniziativa del governo inglese, che negli anni ’90 iniziò ad essere fortemente preoccupato da segnali negativi a riguardo della qualità del NHS e della sua accessibilità. Per la serie la lingua batte dove il dente duole; in altre parole pare che le amministrazioni si pongano il problema della qualità quando incominciano ad aversi dei chiari segnali che la stessa si attesta su livelli bassi e che ciò genera malcontento nella cittadinanza e rischia di produrre un calo del consenso politico.

Gli ordini e le società professionali sembrano, sul tema della valutazione e della promozione della qualità, prevalentemente “subire” degli strumenti scelti da altri. Pare quasi che, dopo la seconda guerra mondiale, con la nascita dei grandi servizi sanitari nazionali i medici abbiano passato la palla della efficacia delle attività cliniche alle istituzioni e che queste in un qualche modo siano state riconosciute da tutti come l’unica vera fonte di ispirazione delle priorità e dei contenuti degli atti professionali. Questa passività riguarda le cosiddette attività istituzionali, che coprono da noi la quasi totalità del tempo lavorativo, e la libera iniziativa e la creatività paiono essere relegate, si fa per dire, al mondo della produzione scientifica, che comprende sia la ricerca clinica sia la pubblicazione dei risultati scientificamente rilevanti del proprio lavoro. Questo è lo spazio, almeno al momento, non occupato dallo Stato e questo è l’ambito nel quale i professionisti trovano il modo di distinguersi tra loro cercando di evidenziare, dal punto di vista scientifico e quindi anche professionale, il proprio valore aggiunto. Autorefenzialità o insofferenza verso un sistema nel quale la dimostrazione della qualità del proprio lavoro pare non interessare a nessuno se non quando si esprime nei termini del suo esatto contrario: è la cosiddetta malamedicina? Questa appena fatta non deve essere considerata da chi legge alla stregua di un’astratta e sviante digressione di tipo filosofico ma, pur anche con il beneficio di inventario, come una chiave di lettura del contesto nel quale uno degli attori principali del sistema sanitario, il professionista sanitario, si trova ad operare.

Comunque la si prenda, è chiaro che la valutazione delle performance qualitative diventa prioritaria per gli Stati, le amministrazioni locali e gli attori coinvolti nei servizi sanitari.

La Regione Lombardia 

In Regione Lombardia si è aggiunto, a partire dalla approvazione della legge regionale 31/97 (legge di riforma del servizio sanitario regionale), un altro presupposto indispensabile per lo sviluppo di politiche di valutazione e di promozione delle performance qualitative dei servizi sanitari. Il modello lombardo infatti ha puntato sulla fiducia nelle responsabilità e sulle professionalità presenti nella società ed ha sviluppato un sistema nel quale il servizio pubblico è garantito attraverso i soggetti che hanno i requisiti per farlo (accreditamento) ed accettano le regole di sistema che annualmente vengono stabilite dalla Regione.

Le politiche di misura e di valutazione della qualità introdotte negli ultimi 10 anni in Regione Lombardia sono nate con l’obiettivo di aiutare il sistema a crescere, fornendo agli attori gli strumenti indispensabili per orientare e sostenere le azioni verso l’obiettivo comune di erogare un buon servizio pubblico. Si può addirittura affermare che il modello della sussidiarietà orizzontale lombardo si è sviluppato e continua a dimostrare a livello nazionale le sue ottime caratteristiche di qualità clinica e di efficienza di gestione (pareggio di bilancio dal 2003!) proprio perché ha considerato fin da subito coessenziali la valorizzazione delle libertà e delle professionalità e la definizione di regole e di strumenti che le possano sostenere e ben finalizzare. La verifica della qualità, quindi, non come un tentativo di salvare il salvabile ex post, ma il presupposto per ben lavorare nella piena valorizzazione di tutti gli attori del sistema. Concludo dicendo che in questa logica il coinvolgimento convinto del mondo delle professioni è indispensabile e che in Lombardia, pur ammettendo di avere dei margini di ulteriore miglioramento, la valutazione ed il monitoraggio iniziano ad essere degli strumenti professionali e non solo degli strumenti di controllo applicati ex post in modo puramente burocratico-amministrativo.







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