Potere, fine del “gioco”?

- Pierluigi Colognesi

Tra pochi giorni si aprirà a Londra una mostra retrospettiva dedicata al «postmoderno», un’era che si dice finita, sostituita dal bisogno di verità. Il commento di PIERLUIGI COLOGNESI

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Vincent Van Gogh, I primi passi

Tra pochi giorni si aprirà a Londra una mostra retrospettiva dedicata al «postmoderno». Ora, una mostra retrospettiva si dedica di solito ad un pittore morto o ad un fenomeno artistico e culturale ritenuto esaurito. E, infatti, si dice che il postmoderno è finito. Ha avuto vita breve, circa quarant’anni; decisamente pochi rispetto ai sei secoli dell’era che l’ha preceduto – quella moderna, appunto – o al millennio del medioevo che c’era prima. Ma, si sa, oggi va tutto più in fretta.

Difficile dare una definizione sintetica e chiara di postmoderno; più che altro si è trattato di una tendenza ad abbandonare l’organicità di una visione della vita, dell’arte, della filosofia, della società in favore di un approccio mutevole, senza schemi, senza pretese di completezza e senza paletti di regole. Questo ha voluto dire mettere in discussione alcuni dogmi della modernità, come lo scientismo, la fiducia in qualche ideologia politica, la presunzione di possedere la realtà, di saperla esaurientemente descrivere e comodamente piegare ai propri scopi. D’altra parte postmoderno ha significato però rinunciare in partenza alla ricerca di una spiegazione totale, trattare tutto come un gioco, «decostruire» (parola centrale della mentalità postmoderna) ogni certezza.

Ed è a questo punto che il quarantenne postmoderno mostra già i dolori della vecchiaia e anzi i rantoli della fine. Ci siamo accorti in fretta che prendere tutto con superficiale e giocosa ironia non funziona, che di decostruzione in decostruzione stiamo riempiendo le nostre esistenze di macerie, che sono scomode e, se viene il freddo di una crisi, non ti riparano. La ricetta? Bisogna «ritornare alla verità e ai valori», dicono. Autorevoli analisti affermano che il postmoderno sta dunque per essere sostituito da una nuova era, quella dell’autenticità. Autentico, come dice il dizionario, significa proprio «rispondente alla verità». C’è, dunque, una verità dell’io, non è tutto un gioco superficiale e senza neppure una vittoria e un premio finali.

Ma attenzione, la verità dell’io non è che egli sia autentico. In greco la parola «autentico» deriva da un verbo che indica potere assoluto, piena autorità; l’autenticità sarebbe, quindi, la detenzione della suprema e non vincolata da niente potestà su se stessi. Allora, l’«era dell’autenticità» non porterebbe altro che un ritorno all’inizio dell’epoca moderna, alla celebrazione dell’uomo e delle sue capacità come indipendenti e autonome. Ma se c’è una cosa chiara è che l’uomo non è veramente padrone di se stesso, come ben sapevano il medioevo e tutte le civiltà religiose.

Soltanto superando il dogma della autonomia e aprendosi alla dimensione religiosa, cioè alla originaria dipendenza, il post postmoderno non produrrà un’era ancora più confusa di quella oltre la quale vuol andare.

A meno che tutta questa insistenza sull’autenticità non nasconda un’insidia peggiore. Sempre secondo il dizionario, autentico significa anche rispondente alla validità, cioè alla norma, agli schemi, alle definizioni che qualcuno ha codificato e a cui, per essere autentico, io devo adeguarmi, come un documento che ha tutti i timbri a posto. E quel qualcuno è certamente un potere che ha bisogno di «autentici» servi.



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