Le illusioni dopo la vittoria di Macron

- Fernando De Haro

Con la vittoria di Macron in Francia in tanti tirano un sospiro di sollievo. Tuttavia, dice FERNANDO DE HARO, non bisogna farsi illusioni: il populismo di certo non si ferma

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Macron (foto LaPresse)

La Francia respira tranquilla. L’Europa respira tranquilla. La soluzione di emergenza ha funzionato. Sconfitti centro-destra e centro-sinistra tradizionali nel primo turno, il candidato con poca esperienza, il social-liberale senza un’appartenenza precisa, se non l’essere membro dell’élite, è servito a frenare il nazionalismo di natura ideologica. Respiriamo tranquilli per qualche minuto ed è logico: una vittoria di Marine Le Pen sarebbe stata una débâcle. Ma subito dopo una domanda pressante ci assale. Come siamo arrivati qui? Come siamo arrivati a una situazione in cui una sconfitta del Front National ci appare come una vittoria da festeggiare? Perché così tanti francesi hanno votato per il candidato anti-europeo e xenofobo?

Il processo è simile a quello che ha consentito a Trump di vincere, anche se con alcune differenze. Il mondo rurale vota contro le élite anche qui, ma non sembra che in Francia la classe media bianca si senta particolarmente penalizzata o che sia in uno stato generale di infelicità, come quello che ha fatto salire i suicidi negli Stati Uniti del 78%. La Francia è la nazione europea con il più alto tasso di fertilità: 1.96. Per concepire un bambino è necessario un senso di positività. Eppure, in Francia, non si parla che di “declino”. Gran parte dei cittadini è andata a votare con la sensazione che il Paese sia in declino a causa della globalizzazione, dell’immigrazione, della burocrazia dell’Unione europea. 

Certa miopia tecnocratica e liberale, particolarmente diffusa in Spagna, attribuisce l’avanzata del populismo alla sofferenza economica causata dalla crisi. Siamo di fronte a un chiaro esempio del fatto che questa tesi non regge. Il Paese che sarà presieduto da Macron cresce poco (1,3%). Un tasso di disoccupazione del 10% è alto per la società francese (mentre sarebbe un’eccellente notizia in Spagna), eppure è un tasso vicino alla disoccupazione tecnica. Ma in Francia restano in vigore le 35 ore di lavoro settimanali e il pensionamento a 62 anni. Con Hollande non c’è stata alcuna austerità reale, i salari non sono scesi e i tagli sono stati insignificanti. Il 50% del Pil è nelle mani dello Stato. Il declino è più immaginario che reale.

Com’è pure immaginaria la minaccia esterna, per cui si attribuisce agli immigrati islamici la responsabilità della violenza e del terrore. Il problema è dentro i confini, nei giovani che hanno sentito predicare fin da piccoli i grandi valori della repubblica laica e hanno scoperto che sono vuoti. Gli ultimi attacchi terroristici sono stati commessi da cittadini francesi. Dopo l’ultimo in cui è stato ucciso un poliziotto sugli Champs Elysees, Oliver Roy ha spiegato che “non c’è una matrice islamista negli attacchi. Si tratta di criminali che diventano musulmani pochi giorni prima di compiere l’attentato e che parlano dell’Isis per ottenere più eco”. Secondo il grande studioso dell’islam, “il vero problema è una radicalizzazione causata da una ‘deculturalizzazione”: questi nuovi jihadisti hanno perso il legame con la loro cultura e con le loro famiglie. Non parlano nemmeno l’arabo. Si adattano a una cultura giovanile fatta di videogame, rap e droga. E si sentono umiliati per ragioni sociologiche, psicologiche o personali”.

Settant’anni fa, la Francia che usciva dalla Seconda guerra mondiale non odiava lo straniero e sognava la globalizzazione. Il grande Albert Camus sulle pagine di Combat scriveva che senza dubbio la Francia era il Paese meno razzista tra tutti quelli che aveva avuto l’opportunità di visitare. Qualche giorno dopo aggiungeva che “molti americani vorrebbero vivere nella loro società, in cui stanno bene. Molti russi forse vorrebbero continuare a vivere l’esperienza statalista fuori dal mondo capitalista. Non potranno farlo. Allo stesso modo, nessun problema economico, per secondario che appaia, può essere risolto oggi senza la solidarietà delle nazioni”. 

Molti connazionali di Camus rimpiangono ora i muri e il nazionalismo. La spiegazione più plausibile per questo cambiamento è che la deculturalizzazione dei giovani ha raggiunto anche gli adulti. Ha raggiunto tutti. Non conosciamo più la lingua in cui sono stati scritti i fondamenti della democrazia europea. Questa lingua era prima che grammatica un patrimonio di esperienze. Tra cui c’erano il valore dell’altro e il valore di un progetto condiviso che non è solamente mercato o la tutela dei diritti individuali. Le grandi tradizioni francesi, illuministe, liberali, socialiste, cattoliche o comuniste non hanno mantenuto in piedi l’edificio.

Va bene che in Francia ci sia un presidente di urgenza come Macron, o in Spagna uno come Rajoy, ma non mettere nella giusta prospettiva queste soluzioni momentanee può essere fuorviante. Senza re-culturalizzazione, la deculturalizzazione continuerà ad avanzare.

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